la Repubblica, 21 aprile 2018
Le banche americane piene di soldi
Milano Non avevano certo bisogno dell’aiutino di Donald Trump le banche statunitensi per guadagnare un po’ di più. Che pure è arrivato, in forma di aliquote fiscali ridotte grazie alla nuova legge federale, che ha ingrossato di quasi il 10% il bottino dei sei maggiori istituti. Così il primo trimestre d’esercizio, chiuso a marzo, è stato uno dei più brillanti per redditività a memoria di investitore: i principali sei gruppi creditizi a stelle e strisce hanno incamerato 31,6 miliardi di dollari di profitti netti insieme, sfondando per la prima volta il muro dei 30 miliardi. Fanno 351 milioni al giorno, pause festive comprese. Per dare un ordine di grandezza le principali banche italiane, tornate alla redditività nel 2017, nell’annata chiusa hanno guadagnato 14 miliardi di euro. Diverse sono le ragioni per cui, e non da ora, ai due lati dell’Atlantico chi fa credito e finanza marcia a velocità diverse. La novità viene dalla riforma fiscale, che la Casa Bianca ha messo a punto per spingere la Corporate America, e nel caso bancario doveva aiutare a erogare più credito: anche se per i quattro principali maggiori prestatori d’America l’aggregato creditizio nei primi tre mesi è diminuito di 2,5 miliardi ( circa lo stesso ammontare dei benefici fiscali). Effetti collaterali. Oltre al fisco amico, a chi fa poco credito e molta finanza, come molte delle grandi banche Usa, fa comodo anche la volatilità. Se i prezzi si muovono – e il trimestre appena chiuso è stato il più volatile da tre anni in qua – chi per mestiere compra e vende titoli ci guadagna per definizione: così si è visto il grande ritorno dei ricavi da trading, nella loro forma migliore da un triennio. Prova ne sia che gli istituti più capaci di far crescere gli utili a marzo sono stati Jp Morgan (+ 35%), leader dell’investment banking mondiale, e le sue inseguitrici Bank Of America (+30%) e Goldman Sachs (+ 27%). La terza componente del record riguarda il margine di interesse, scarto tra la raccolta e il prestito del denaro che costituisce la voce tradizionale dell’aggio bancario. Il rialzo dei tassi ufficiali di marzo di 25 punti base, con cui la Fed ha portato il costo del denaro all’ 1,50- 1,75%, è solo l’antipasto di una teoria di rialzi che entro il 2019 vedrà il dollaro arrivare a un 3% di tasso. A livello di tassi reali siamo già oltre quei livelli, e non da ora: mentre in Europa, e anche in Giappone, si vive e opera ancora in clima “tassi zero”, tanto che sono le commissioni di gestione sono il solo vero punto di forza rimasto. L’aspetto paradossale di questa marcia che pare inarrestabile è che i grafici borsistici delle banche campionesse di profitti procedono a strappi: dopo le notizie un sussulto, poi un calo senza rimbalzo, tale che nell’ultimo mese il grafico delle sei big presenta ribassi compresi tra il 2,5 e il 6%. Gli insaziabili investitori, si sa, anticipano sempre: e sembrano comportarsi come fossimo a un punto di picco: «Le cose non potrebbero andar meglio di ora: quindi è il momento di vendere», è la logica. Anche le dichiarazioni di qualche banchiere americano, sulla prossima frenata del ciclo creditizio o sui prossimi stress test della Fed, che potrebbero rivelarsi più duri di quelli, benevoli, scorsi. Anche il direttore finanziario di Bofa Paul Donofrio ha detto che i test «saranno molto più severi quest’anno». In un listino drogato da riacquisti azionari e dividendi tornati sopra le medie pre-crisi (circa tre quarti degli utili sono restituiti agli azionisti), la vera preoccupazione di chi è investito in titoli dai multipli alle stelle, par soprattutto quella di guadagnare un po’ meno.