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 2018  aprile 21 Sabato calendario

Sentenza a Palermo: stato e mafia hanno trattato

Secondo i giudici di Palermo la trattativa stato-mafia c’è stata e in base a questa convinzione hanno condannato a 12 anni di reclusione Marcello Dell’Utri, gli ex generali del Ros (carabinieri) Mario Mori e Antonio Subranni, a 8 anni l’ex colonnello Giuseppe De Donno e a Massimo Ciancimino, e sul lato dei mafiosi conclamati 28 anni a Leoluca Bagarella e 12 anni ad Antonino Cinà. Quando il processo è cominciato, cinque anni fa, erano implicati anche Nicola Mancino, Calogero Mannino e sul lato dei mafiosi Riina, Provenzano e Giovanni Brusca. Mancino, sospettato di falsa testimonianza, è stato assolto, Mannino è uscito dal problema, con un’assoluzione, da un pezzo, Riina e Provenzano intanto sono morti e Brusca se l’è cavata perché è scattata la prescrizione. Nessuno è andato in carcere: la sentenza è solo di primo grado e tutti i condannati ricorreranno.  

Il nome di Dell’Utri, che è già in carcere per un’altra questione, mi fa venire in mente il nome di Berlusconi. Il nome di Berlusconi mi ricorda che Berlusconi, intanto, è impegnato nella crisi di governo e nella battaglia politica. Prima di addentrarci nei meandri della sentenza palermitana, le chiederei: questo nuovo fatto complica o no la vita del presidente Mattarella?
Eccome. La tesi dei cinquestelle, secondo cui con Berlusconi non si possono e non si devono fare patti, ne esce evidentemente rafforzata. Dell’Utri, secondo la tesi dei pm accettata dai giudici popolari, trattava con i mafiosi per conto di Berlusconi. Quindi Berlusconi è, come è solito dire Travaglio, un «delinquente». Chi vorrebbe andare al governo con un delinquente? Il ragionamento grillino e travagliesco si spinge fino al punto di chiedere: come può il presidente della repubblica ricevere un delinquente e discutere con lui i problemi del paese? Come riferiamo meglio qui sotto, i grillini esultano per la sentenza che dà ragione alle loro tesi. Quindi anche l’appoggio esterno di Forza Italia, che ieri era parsa una prospettiva minimamente praticabile, sembra a questo punto impossibile, anche per la dura reazione del Cav. Sembra che Salvini debba rassegnarsi: o sposa Di Maio da solo accettando un ruolo di spalla (porta un 17% a fronte di un 32%) oppure c’è il governo del presidente oppure si vota.  

Veniamo alla trattativa stato-mafia. Aspetti. Se rifletto sull’espressione ormai abusata «trattativa stato-mafia» immagino una stanza, che ha al centro un tavolo e da una parte di questo stato sta seduto un mafioso e dall’altra parte di questo tavolo sta seduto un rappresentante dello stato. Giusto? Chi sarebbe il rappresentante dello stato, in questo caso? Dell’Utri?
Gli accusatori palermitani - cioè i pm Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e Nino Di Matteo - sostengono che la mafia si allarmò all’esito del cosiddetto maxiprocesso di Palermo, il più grande mai celebrato al mondo, 475 imputati, 200 avvocati, pene finali equivalenti a 2.600 anni di reclusione quasi tutte confermate in cassazione. A quel punto - sostengono i quattro pm - Cosa Nostra decise di lanciare un primo segnale ammazzando Salvo Lima, andreottiano. Questo delitto significava in pratica: uomini politici, avete rotto il patto che avevate con noi. I mafiosi, mentre cominciavano una trattativa con i carabinieri (ecco lo stato) ammazzavano anche Falcone e Borsellino e mettevno a segno gli attentati di Milano, Firenze e Roma.  

E Dell’Utri?
Dell’Utri avrebbe trattato con i mafiosi la vittoria elettorale alle elezioni, promettendo che le richieste di Totò Riina, contenute in un papello millantato da Massimo Ciancimino ma mai ritrovato, sarebbero state esaudite. I governi dell’epoca che in qualche modo sarebbero coinvolti nella trattativa sono in realtà tre: il governo Amato, il governo Ciampi e il governo Berlusconi.  

Su che si basa la convinzione degli accusatori e dei giudici popolari che le cose siano effettivamente così?
Quasi soltanto sulle dichiarazioni di pentiti. La tesi degli accusatori e, immaginiamo, anche questa sentenza sono al centro di un dibattito molto acceso tra i giuristi. Tra i massimi critici dell’inchiesta e adesso anche della sentenza c’è il professore Giovanni Fiandaca, che è stato maestro, tra gli altri di Antonino Ingroia, l’iniziatore del progetto relativo alla trattativa. «Mi aspettavo un esito assolutorio per la difficoltà tecnica di configurare il reato di “minaccia a corpo politico dello Stato”, il reato previsto dall’articolo 338 del codice penale. La sua applicazione agli occhi di un giurista di professione - e non sono soltanto io a pensarlo - è sbagliata sotto il profilo di una interpretazione sistematica...». Ed ancora: «La questione è abbastanza tecnica e probabilmente una corte di assise in cui sono presenti i giudici popolari, di solito non molto esperti di diritto, non è la sede più adatta per approfondire questioni di questo tipo... Ma comprendo che il problema era la rilevanza penale della trattativa. E la linea della procura ha vinto, pur persistendo le mie riserve di giurista, convinto che la materia offrirà spunti di riflessione in appello e in Cassazione».