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 2018  aprile 20 Venerdì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LA TRATTATIVA STATO-MAFIA ESISTECORRIERE.ITFELICE CAVALLARO PALERMO – Per dire che il processo sulla «trattativa Stato-mafia» era sbagliato, definendo un errore il riferimento al reato di «minaccia a corpo politico dello Stato», erano scesi in campo giuristi di gran fama, a cominciare dal professore Giovanni Fiandaca, il cattedratico di Palermo con il quale studiò e si laureò l’ex pm Antonio Ingroia

APPUNTI PER GAZZETTA - LA TRATTATIVA STATO-MAFIA ESISTE

CORRIERE.IT
FELICE CAVALLARO

PALERMO – Per dire che il processo sulla «trattativa Stato-mafia» era sbagliato, definendo un errore il riferimento al reato di «minaccia a corpo politico dello Stato», erano scesi in campo giuristi di gran fama, a cominciare dal professore Giovanni Fiandaca, il cattedratico di Palermo con il quale studiò e si laureò l’ex pm Antonio Ingroia. E invece la corte di assise presieduta da Alfredo Montalto, confermando la tesi dell’accusa, ha condannato a pene severissime sia Marcello Dell’Utri, uno dei fondatori di Forza Italia indicato come gran manovratore della presunta trattativa nel ’94 con il governo Berlusconi, sia i vertici del Ros, gli ufficiali dei carabinieri ritenuti responsabili di sotterranee intese a cavallo delle grandi stragi sfociate nei massacri di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e delle loro scorte.

Dell’Utri gran manovratore

Una pagina di storia che grazia l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, assolto dal sospetto di una falsa testimonianza, e si rovescia invece su boss e apparati investigativi. Scomparsi Totò Riina e Bernardo Provenzano, scattata la prescrizione per il pentito Giovanni Brusca, la responsabilità della trama e della stagione di sangue viene attribuita con una pena di 28 anni di carcere soprattutto al cognato di Riina, lo stragista Leolucua Bagarella già in cella, e al boss Antonino Cinà, 12 anni. Ma ad alimentare polemiche sul piano giudiziario e politico è il verdetto che si abbatte sui destini degli ex generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, condannati a 12 anni di reclusione come Dell’Utri, ritenuto il trait d’union fra politica, mafia e apparati, già in cella per un altro processo. Durissima la Corte anche con l’ex colonnello Giuseppe De Donno, otto anni. Stessa pena attribuita a Massimo Ciancimino, il superteste del processo, il rampollo dell’ex sindaco mafioso che con le sue rivelazioni consentì alla Procura di riaprire le indagini, a sua volta accusato di calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Ciancimino jr. può però tirare un sospiro di sollievo perché assolto dall’accusa di associazione mafiosa.

Lo sconforto dei carabinieri

Bisognerà leggere le motivazioni di questa sentenza che arriva dopo 5 anni e sei mesi di processo, ma alla evidente euforia dei magistrati, a cominciare da quella di Nino Di Matteo che rilevò la sostanziale guida del dibattimento dopo la corsa di Ingroia verso la politica, corrisponde la delusione di Mori, De Donno e Subranni. A cominciare da quest’ultimo, anziano e malato: «Andremo avanti, in appello, per contestare una sentenza ingiusta. Le responsabilità che ci attribuiscono non sono state affatto commesse. Ma non posso dire niente, senza leggere le motivazioni...». Dello stesso tono l’amarezza del generale Mori confidata al legale dei tre ufficiali, Basilio Milio, che a sua volta parla di «grande sconforto e sbigottimento», certo però che «la verità è dalla nostra parte». E ai suoi assistiti concede un barlume di fiducia: «Possiamo sperare che finalmente, dopo 5 anni, in appello vi sarà un giudizio. Perché questo è stato un pregiudizio caratterizzato dall’adesione alle istanze della Procura e quasi mai della difesa. Una sentenza dura che non sta né in cielo né in terra perché questi fatti sono stati già smentiti da quattro sentenze definitive».

I supporter di Nino di Matteo

Di opposto parere i cinquanta supporter dei pm raccolti davanti all’aula bunker del carcere Pagliarelli dalle associazioni Agende rosse e Scorta civica, fra grandi applausi per i pm Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi e Nino Di Matteo. Con quest’ultimo incisivo e solenne: «Che la trattativa ci fosse stata non occorreva che lo dicesse questa sentenza. Ciò che emerge oggi e che viene sancito è che pezzi dello Stato si sono fatti tramite delle richieste della mafia. Mentre saltavano in aria giudici, secondo la sentenza, qualcuno nello Stato aiutava Cosa nostra a cercare di ottenere i risultati che Riina e gli altri boss chiedevano. Qualcuno dello Stato ha trattato con Riina e Bagarella e altri stragisti, trasmettendo le richieste, i messaggi di Cosa nostra ai governi. Prima si era messa in correlazione Cosa nostra con il Silvio Berlusconi imprenditore, adesso questa sentenza per la prima volta la mette in correlazione col Berlusconi politico. Le minacce subite attraverso Dell’Utri non risulta che il governo Berlusconi le abbia mai denunciate e Dell’Utri aveva veicolato tutto. Ecco perché è una sentenza storica». Una ragione in più perché il meno giovane dei pm, Teresi, affondi con un commento lapidario: «Questo processo e questa sentenza sono dedicati a Paolo Borsellino, a Giovanni Falcone e a tutte le vittime innocenti della mafia».

Fiandaca e l’accusa sbagliata

La sentenza spiazza uno dei maestri dei pm palermitani, appunto il professore Fiandaca: «Mi aspettavo un esito assolutorio per la difficoltà tecnica di configurare il reato di ‘minaccia a corpo politico dello Stato’, il reato previsto dall’articolo 338 del codice penale. La sua applicazione agli occhi di un giurista di professione -e non sono soltanto io a pensarlo- è sbagliata sotto il profilo di una interpretazione sistematica...». Ed ancora: «La questione è abbastanza tecnica e probabilmente una corte di assise in cui sono presenti i giudici popolari, di solito non molto esperti di diritto, non è la sede più adatta per approfondire questioni di questo tipo... Ma comprendo che il problema era la rilevanza penale della trattativa. E la linea della procura ha vinto, pur persistendo le mie riserve di giurista, convinto che la materia offrirà spunti di riflessione in appello e in Cassazione».

Graziano Nicola Mancino

Come dire che, a un quarto di secolo dai fatti e dopo cinque anni di processo, ci vorrà ancora tempo per un definitivo accertamento della verità giudiziaria. Non per l’unico assolto, Nicola Mancino, coinvolto anche per le sospette telefonate al Quirinale durante la presidenza di Giorgio Napolitano. Rilassato, ma segnato dalle accuse l’ex presidente del Senato: «Relegato per anni in un angolo, posso ora dire di non aver atteso invano. Ma che sofferenza...». Poi una riflessione più generale su questi anni: «Ho sempre avuto fiducia che a Palermo ci fosse un giudice. La lettura del dispositivo che esclude la mia responsabilità nel processo sulla cosiddetta trattativa ne è una solenne conferma. Sono stato vittima di un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo ‘uomo’, che tale è stato ed è tuttora...».

Sistemi criminali

Caso Mancino a parte, lo Stato non ne esce bene. ed è come se riprendesse forma la vecchia inchiesta sui “sistemi criminali” avviata tanti anni fa dall’allora pm Roberto Scarpinato. Un’inchiesta che teorizzava un presunto golpe che avrebbe visto protagonisti negli anni Novanta, in un tentativo di destabilizzazione del Paese, Cosa nostra, massoneria deviata, pezzi di Stato ed eversione nera. Indagine poi archiviata, ma fu allora che si ipotizzò per la prima volta il reato oggi convalidato da una sentenza di primo grado: la violenza o minaccia a corpo politico dello Stato.

Trattativa Stato-mafia: gli attentati, gli ufficiali, il presunto accordo con i boss. Ecco cos’è, dall’omicidio Lima a Ciancimino Prev Next Personaggi e interpreti

Di Maio ringraziaImmediati i riflessi politici di una sentenza non a caso commentata con un twitter dal capo politico dei Cinque Stelle, Luigi Di Maio, da sempre in contatto con Di Matteo: «La trattativa Stato-mafia c’è stata. Con le condanne di oggi muore definitivamente la Seconda Repubblica. Grazie ai magistrati di Palermo che hanno lavorato per la verità». Passeranno almeno un paio di mesi per le motivazioni di una sentenza che condanna gli imputati anche al risarcimento in solido dei danni in favore della parte civile della Presidenza del consiglio dei ministri liquidati in 10 milioni di euro. Pagano tutti. Tranne chi ha ha premuto il pulsante della strage di Capaci, Giovanni Brusca, lo stesso che sciolse il piccolo Giuseppe di Matteo nell’acido, ormai pentito. Un quadro complessivo che lascia zone d’ombra, oltre la verità giudiziaria.

CHE COS’È LA TRATTATIVA STATO-MAFIA (da corriere.it)
Personaggi e interpreti

Il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia (qui tutte le condanne) ha fatto «ballare» politica e giustizia in Italia per una ventina d’anni. L’accusa si è mossa sulla base di un «teorema» in base al quale di fronte all’offensiva di Cosa Nostra che insanguinò l’Italia a partire dagli anni ‘90, lo Stato avrebbe risposto cercando un accordo con i capi della mafia. Sul banco degli imputati davanti alla Corte d’Assise di Palermo si sono trovati rappresentanti delle istituzioni (gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno) , Marcello Dell’Utri e i capimafia Antonio Cinà, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. All’inizio delle udienze nel processo erano accusati anche Totò Riina e Bernardo Provenzano, poi deceduti. Stralciata la posizione degli ex ministri Calogero Mannino (nel frattempo assolto) e Nicola Mancino (quest’ultimo accusato solo di falsa testimonianza).

La rottura: l’omicidio Lima

Il fatto da cui sarebbe scaturita la trattativa viene fissato dai pm di Palermo nell’omicidio dell’europarlamentare Dc Salvo Lima (marzo 1992): ritenuto contiguo ai clan, Lima agli occhi dei boss sarebbe stato ucciso in quanto non più in grado di garantire i rapporti tra Cosa Nostra e istituzioni. La frattura avviene in particolare dopo la sentenza definitiva sul maxiprocesso di Palermo. Rotti questi equilibri, la mafia si sarebbe vendicata alzando il tiro contro lo Stato. Tale strategia sarebbe passata attraverso gli omicidi «eccellenti» di Falcone e Borsellino, gli attentati del ‘93 a Milano, Firenze e Roma, tutti attribuiti a Totò Riina e ai suoi complici.

Mannino diede il via alla trattativa?

Sempre nel quadro «disegnato» dall’accusa, il primo passo dello Stato verso la mafia viene compiuto da Calogero Mannino: divenuto bersaglio di minacce l’indomani dell’omicidio Lima (gli viene recapitata una corona funebre), l’esponente Dc contatta i vertici dei carabinieri e questi ultimi avrebbero a loro volta avvicinato l’ex sindaco di Palermo condannato per mafia Vito Ciancimino. Da qui si sarebbe dipanata la trattativa i cui «segnali» sarebbero stati la revoca del carcere duro per oltre 300 condannati per mafia nel ‘93, la cattura di Riina («venduto ai carabinieri» in cambio della latitanza per Provenzano ), l’omicidio Borsellino (ucciso perché contrario alla trattativa) e presunti incontri tra capimafia (ad esempio i fratelli Graviano) ed esponenti della politica. E più avanti un abboccamento per far convergere i voti di Cosa Nostra su Forza Italia attraverso Cinà e Dell’Utri.

Il «papello» mai trovato

Cuore della trattativa sarebbe però il cosiddetto «papello»: un documento fatto recapitare da Riina agli esponenti delle istituzioni (attraverso i carabinieri) con una serie di richieste. Tra esse ci sarebbero state l’abolizione del carcere duro per i mafiosi e del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso. In cambio di quelle richiesta veniva promessa una «pax» mafiosa e la cessazione degli attentati. Quel pezzo di carta, tuttavia, non è mai stato ritrovato. Anzi: una copia messa a disposizione degli inquirenti da parte di Massimo Ciancimino, figlio di Vito, si è rivelato una «patacca». Costata l’incriminazione allo stesso Ciancimino junior.

Le fonti di prova? I pentiti

Le fonti di prova per questa trama portate dalla procura all’attenzione della Corte sono state essenzialmente le deposizioni dei pentiti. Giovani Brusca in primis, ma anche Salvatore Cancemi, Nino Giuffrè e Gaspare Spatuzza. Tutti (ma solo loro) avvalorano il fatto che l’indomani del delitto Lima e degli attentati venne avviato il dialogo tra i carabinieri e i capimafia. Anche alcune sentenze avvalorano l’ipotesi che sia esistito un patteggiamento tra Stato e malavita organizzata ma sempre sulla scorta dei collaboratori di giustizia. Vengono ritenute inoltre rilevanti le intercettazioni in carcere dei colloqui di Totò Riina con un compagno di cella. In particolare una frase («Sono loro che si sono fatti sotto...») che alluderebbe secondo i pm a una volontà dello Stato di avvicinare i capi della mafia per intavolare la trattativa.

I punti deboli dell’accusa

L’impianto dell’accusa, tuttavia, ha subito alcuni colpi che ne hanno messo in dubbio la solidità. Questi colpi sono arrivati in particolare da sentenze «esterne» al processo Stato-mafia ma ad esso connesse. Ad esempio, Calogero Mannino è già stato assolto in primo grado da tutte le accuse: dunque nel suo comportamento non è stato ravvisato alcun «avvicinamento» con le cosche. Anche il generale dei carabinieri Mario Mori è stato assolto dall’accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano: questa avrebbe dovuto essere una delle «monete di scambio» tra la mafia e le istituzioni. E infine era già crollata la credibilità di Massimo Ciancimino, le cui presunte rivelazioni (ad esempio sulla partecipazione di un fantomatico «signor Franco» dei servizi segreti alla partecipazione delle stragi mafiose) sono rumorosamente crollate a dispetto della loro eco mediatica.

Le intercettazioni di Napolitano

Le indagini sono arrivate anche a lambire il Quirinale e in particolare il presidente emerito della repubblica Giorgio Napolitano. Nicola Mancino, ex ministro degli interni, avrebbe chiamato più volte il Quirinale sostenendo che le indagini dovessero essere tolte alla procura di Palermo; i colloqui avvennero anche con il consigliere del Capo dello Stato, Loris D’Ambrosio il quale arrivò anche a sospettare che fossero stati sottoscritti «indicibili accordi» tra Stato e clan. Quelli di D’Ambrosio, nel frattempo deceduto, rimasero dei sospetti. Indagando su Mancino, tuttavia, i pm di Palermo intercettarono involontariamente alcuni colloqui tra quest’ultimo e Napolitano. La procura chiese a questo proposito di distruggere le telefonate irrilevante e di conservarne altre che avrebbero potuto tornare utili in futuro. Nel 2012 Napolitano solleva però un conflitto di attribuzione davanti alla corte Costituzionale sostenendo che quelle intercettazioni fossero illegittime e non potessero divenire oggetto di valutazione se non nell’ambito del reato di alto tradimento o attentato alla Costituzione. Il 4 dicembre 2012 la Consulta ha dato ragione a Napolitano e ordina l’immediata distruzione dei colloqui.