La Stampa, 20 aprile 2018
Intervista a Mark Cox: Io, un dilettante nella storia. Così nel ’68 è caduto un muro
Era il 1968, 50 anni fa. Venti di rivolta spazzavano il mondo da Est a Ovest, da Praga ai campus americani, anche il tennis conobbe la sua rivoluzione: la fine dell’apartheid nei confronti degli «sporchi» professionisti. Un anno prima la Federazione internazionale aveva ceduto, il ’68 fu tale anche per i gesti bianchi. Il primo Slam «Open» si giocò a Parigi ma il primo torneo in assoluto fu quello di Bournemouth, in Inghilterra. Il 22 aprile, alle 13 e 43, lo scozzese John Clifton servì il primo servizio dell’Era Open. Il torneo lo vinse Ken Rosewall in finale su Rod Laver, i due più grandi fuoriclasse che per tanti anni erano stati esclusi, ma la storia la fece l’inglese Mark Cox, che al 2° turno il 24 aprile diventò il primo dilettante a battere un professionista: Pancho Gonzalez, per anni considerato il n. 1 assoluto. «Prima o poi doveva capitare – sorrise Pancho – ed è capitato a me».
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Mr Cox, lei nel nel ’68 aveva 24 anni: che aria si respirava nel tennis in quel periodo?
«C’era molta incertezza. Per un dilettante giocare contro un professionista significava rischiare una squalifica, poi l’Itf accettò la proposta della federazione inglese di aprire ai professionisti e questo ci rese la vita più facile. Per i pro era una possibilità di far vedere di cosa erano capaci, dopo tanti anni in cui erano stati esclusi. Per Laver, Rosewall e tanti altri fu una liberazione».
A Bournemouth giocarono sei professionisti: con quale spirito?
«Avevano tutto da perdere e niente da guadagnare. Io giocai contro Gonzalez, che aveva 39 anni e non era più abituato da decenni a giocare al meglio dei 5 set, di solito si esibiva indoor. Noi dilettanti invece non avevamo nulla da perdere. Potevamo giocare o la va o la spacca, nessuno si aspettava nulla da noi. La “chimica” dell’evento era dalla nostra parte».
Lei battè Gonzalez al 2° turno in 5 set e Roy Emerson nei quarti, ma fu sconfitto dal professionista Laver in semifinale...
«Laver e Rosewall misero in mostra il loro enorme talento alla fine del torneo. Tutti capirono quanto erano davvero forti. E quanto ci eravamo persi negli anni dell’esilio».
Cosa ricorda del match contro Gonzalez? Pancho a forza di scivolare sulla terra si distrusse le scarpe.
«Era un gigante, in tutti i sensi: altissimo, un carattere che intimidiva. La sua reputazione era enorme. Nel primo set mi distrusse: 6-0. Non giocavo contro di lui, ma contro la sua fama. Poi entrai in partita e il pubblico si schierò dalla mia parte. Ero in forma, lui invece fisicamente al limite, in più la terra scivolosa non lo favoriva».
Tifavano per l’inglese o per il Davide che si batteva contro Golia?
«Io ero conosciuto e, come avviene anche in Italia, quando l’atleta di casa gioca bene, il tifo sale. Il centrale era pieno, l’evento era molto atteso dai media perché potenzialmente era l’inizio di un boom, l’anteprima di quello che sarebbe avvenuto nel corso degli Anni 70 con l’arrivo delle tv».
Lei si rese conto di vivere un momento storico per il tennis?
«Non fino a quando vidi la copertura dei media. Improvvisamente comparvero i fotografi che di solito andavano sulla copertina dei grandi quotidiani. In realtà fui fortunato a trovarmi lì. In un certo senso, non me lo meritavo. Ma capitò».
Fra dilettanti e professionisti c’era ruggine?
«Anzi, eravamo felici del loro ritorno: perché era uno spettacolo vederli giocare. Da dilettante avevo giocato un paio di match contro Roy Emerson, battuto Fred Stolle. Poi, certo, c’erano fenomeni come Laver e Rosewall...»
Cosa significava giocare contro Laver?
«Fui grato a Laver: mi mostrò la differenza fra il suo tennis e il mio. Era un campione completo, senza un vero punto debole. E un grande atleta: si muoveva benissimo, al volo era straordinario. È stato il primo mancino con un rovescio aggressivo. Prima di lui c’erano stati Fraser, o Drobny, che però più che altro si difendevano con il rovescio in back. Laver vinceva i punti con il rovescio».
La domanda da 1000 sterline: meglio lui o Federer?
«Non so dirlo. Quando ho iniziato a commentare in tv lo facevo con Dan Maskell, e per lui il più grande era Don Budge: dipende dall’epoca in cui si vive. Oggi sono tutti più alti, il gioco è cambiato, ci si allena meglio. Allora 3 Slam su 4 erano sull’erba, il serve&volley dominava. Federer però è quello che ricorda di più i campioni di allora, per la fluidità dei suoi movimenti, per la bellezza dei colpi. Il suo è un tennis fatto di timing, non di potenza. Proprio come quello di Rosewall e Laver».