la Repubblica, 20 aprile 2018
Provette e testimonianze. I cacciatori di armi chimiche alla ricerca della verità
Sono al centro di un caso internazionale che può innescare una nuova guerra devastante, proprio come accaduto in Iraq nel 2003. Gli ispettori dell’Opac, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, sono in Siria da sei giorni e saranno loro a cercare le prove sul campo per stabilire se a Douma, città principale della provincia ribelle della Ghouta orientale, alle porte di Damasco, c’è stato davvero un attacco chimico.
Ma come lavorano? Tutto è nelle mani dell’organizzazione internazionale con sede a l’Aia, creata nel 1997 per vigilare sul rispetto della Convenzione che proibisce lo sviluppo, lo stoccaggio e l’uso delle armi chimiche che nel 2013 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace per il suo lavoro.
L’Opac dispone di almeno un centinaio di ispettori, pronti a viaggiare e a esaminare i siti in cui è avvenuto un presunto attacco. La missione si chiama “Fact- Finding Mission”, proprio perché è incaricata di appurare i dati oggettivi, al di là di accuse e propaganda di parte. Opac non è nata per operare in zone di guerra: quando gli ispettori si muovono in zone martoriate dai combattimenti, come la Siria, si appoggiano al Dipartimento per la Sicurezza dell’Onu (UNDSS), che conduce ricognizioni sul campo per verificare la sicurezza. È proprio uno di questi team Onu, che doveva proteggere gli ispettori arrivati in Siria, che si è ritrovato attaccato due giorni fa ed è per questo che, mentre scriviamo, il gruppo non ha ancora iniziato il suo lavoro a Douma.
Le missioni si fondano sul principio che gli ispettori hanno il diritto di accedere a qualsiasi area che può essere stata interessata da un attacco chimico. I membri del team, le cui identità non vengono rese note pubblicamente, prelevano campioni ambientali di terreno, acqua e campioni biologici per stabilire la presenza di agenti chimici. Raccolgono eventuali resti di proiettili che potrebbero aver diffuso i gas o ispezionano una base aerea alla ricerca di tracce, se l’attacco ha coinvolto velivoli. Visitano ospedali, intervistano testimoni, vittime, medici e possono anche essere presenti alle autopsie dei morti nei presunti attacchi chimici. I campioni ambientali e biologici prelevati vengono esaminati sul sito o inviati ai laboratori specializzati che lavorano per l’Opac e i cui nomi sono segreti, per non compromettere l’imparzialità del lavoro scientifico. Entro trenta giorni dall’inizio della missione sul sito, gli ispettori devono consegnare il rapporto finale.
Non spetta alla missione stabilire chi è responsabile dell’attacco: la sua unica finalità è concludere se c’è stato o meno e raccogliere dati oggettivi. A chi spetta, dunque, il compito di attribuire le responsabilità? Fino all’anno scorso, c’era un organo apposito: il Joint Investigative Mechanism ( JIM), messo in piedi dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. A dicembre 2017, però, il mandato del JIM è scaduto e non è stato rinnovato. Alla richiesta di Repubblica di sapere chi, a questo punto, deciderà come attribuire la responsabilità di un eventuale attacco chimico a Douma, il Consiglio di Sicurezza Onu, interpellato tramite la Presidenza – che attualmente spetta al Perù – non ha voluto rispondere. I ritardi nell’accesso al sito stanno alimentando preoccupazioni e sospetti di ogni tipo. Dopo l’attacco missilistico di sabato notte contro la Siria, ordinato da Usa, Gran Bretagna e Francia, alcuni osservatori si sono chiesti se quel tipo di intervento militare potesse contribuire ad alterare le prove sul campo. L’ambasciatore Sergey Batsanov, che dirige l’ufficio di Ginevra del Pugwash – una delle più rispettate organizzazioni internazionali per il disarmo chimico, nucleare e batteriologico- spiega a Repubblica che quel tipo di attacco non può aver alterato la situazione sul terreno, «ma nel senso politico», commenta Batsanov, «è stato inviato un segnale forte che le future conclusioni degli esperti non contano nulla».