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 2018  aprile 20 Venerdì calendario

Il sogno americano di Sammartino, il re del wrestling partito dall’Abruzzo

Gli bastarono 48 secondi per conquistare l’America. Il 17 maggio del 1963 nel vecchio Madison Square Garden, di fronte a ventimila spettatori, sconfisse senza storie Buddy Rogers e divenne campione della World wrestling federation. Fu il decollo della carriera di Bruno Sammartino, la «Leggenda vivente», «the Italian strongman», l’Italiano forzuto, morto mercoledì a 82 anni dopo due mesi di ricovero in ospedale.
Sammartino, figlio di immigrati italiani, partito durante la guerra da Pizzoferro, montagne abruzzesi, per raggiungere il padre che aveva trovato lavoro a Pittsburgh, la città dell’acciaio, non poteva non scaldare i cuori di quei milioni di nuovi americani che sognavo il riscatto, sgomitavano per trovare il loro posto nella società. Bruno, «lo stallone italiano», era il bravo ragazzo che ce l’aveva fatta, mettendosi alle spalle povertà e diffidenza. 
Da ragazzino lo prendevano in giro perché era debole, aveva la febbre reumatica e non parlava bene l’inglese. E lui aveva trovato il modo per farsi valere impegnandosi in palestra e dedicandosi alla lotta. Nel 1959 aveva sollevato 256 chili sdraiato sulla panca, Vincent J. McMahon, il padre del wrestling americano, lo aveva notato e subito ingaggiato. Quattro anni dopo era diventato il più forte di tutti. Mantiene il titolo mondiale fino al 1971, battuto da Ivan Koloff davanti ai fan in lacrime. Due anni dopo si riprende la corona. La terrà per altri tre anni e mezzo, sommando alla fine 4.040 giorni sul tetto del mondo della lotta che diventa spettacolo, dello sport che si trasforma in teatro.
«Era una delle persone migliori che abbia mai conosciuto, nella vita e nel lavoro – ha detto Vince McMahon, il presidente della World wrestling entertainment —. Ha dimostrato che con l’impegno e il lavoro si possono superare anche le circostanze più difficili. Ci mancherà». 
L’Italiano forzuto, un metro e 78 per 120 chili, era il buono che metteva al tappeto il cattivo di turno, Killer Kowalski, Gorilla Monsoon, George the Animal, fino a Larry Zbyszko, l’allievo che osò sfidare il maestro. Era quello che nell’ambiente definiscono un brawler, un attaccabrighe, dotato di grande forza fisica e irresistibile carisma. Per 187 volte ha fatto il tutto esaurito al Madison Square Garden, un record. «Era l’interprete del sogno americano – lo ha ricordato Zbyszko —. Era un ragazzo sincero, la gente lo capiva e credeva in lui».
Sammartino chiuse la carriera nel 1987, in un mondo che era già profondamente cambiato. Non gli piaceva il nuovo modo di sceneggiare i match, con meno azione e più parole, ma anche l’eccesso di droghe e sostanze illecite. Diventato commentatore televisivo, aveva ingaggiato una battaglia contro i vertici di quella Federazione che aveva aiutato a far diventare grande. Una frattura che si ricompose solo nel 2013, quando dopo tanti rifiuti, accettò di entrare nella Hall of Fame della Wwe. Nelle cerimonia fu il suo grande amico Arnold Schwarzenegger a presentarlo. «Questo riconoscimento è la cosa più importante della mia vita» disse commosso Sammartino. Riempiendo per la centottantesima volta il Madison.