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 2018  aprile 19 Giovedì calendario

La sfida sul commercio che agita le potenze

«Occhio al pericolo di guerra». Dopo mezz’ora di risposte insipide, ed un gin and tonic, il banchiere d’affari americano mi ha finalmente detto una cosa interessante. «Corea del Nord? Cina? Medio Oriente?» ho chiesto immediatamente. Il banchiere mi ha lanciato uno sguardo perplesso: «No, no, non guerra militare», ha precisato. «Una guerra commerciale».
All’epoca – la fine di febbraio – l’idea sembrava paranoica. Oggi è una realtà. Grazie all’attacco di Donald Trump con le tariffe sull’acciaio e la risposta del leader cinese Xi Jinping, il mondo è sull’orlo di un conflitto che potrebbe avere conseguenze devastanti per l’economia.
Se non credete a me, ascoltate il Fondo Monetario Internazionale. Maurice Obstfeld, il sobrio consigliere economico del Fondo, ha detto al Guardian questa settimana che il sistema commerciale multilaterale degli ultimi 70 anni, «rischia di essere dilaniato» dalle forze protezionistiche provenienti sia da Est che da Ovest.
Si riferiva alle schermaglie tra gli Usa e la Cina ma anche a Brexit, alle paure di Paesi mediorientali dove i petrodollari stanno finendo, e ad un’Europa che è sommersa da un’ondata di populismo.
Il commercio internazionale è il campo di battaglia su cui si stanno scontrando fortissime correnti politiche ed economiche.
L’idea del sistema economico istituito dopo la Seconda guerra mondiale era semplice: ridurre le barriere al commercio per stimolare l’economia.
Seguendo le teorie di David Ricardo, economista inglese del ‘700, i fautori di questa struttura postularono che il libero commercio avrebbe permesso a varie nazioni di specializzarsi in quello che fanno meglio.
E così è stato (più o meno) per quasi un secolo: se la Cina può produrre carrozzine a bassi costi, le può esportare in Italia, America e Brasile. In cambio, l’Ovest ha esportato i suoi debiti (e molti iPhone) alle tigri dell’Est consentendo a gran parte della propria popolazione di mantenere uno standard di vita elevato anche quando le industrie locali perivano o traslocavano altrove. Nel frattempo, i produttori di materie prime (Arabia Saudita, Russia ecc.) hanno venduto un po’ dappertutto, importando valuta pregiata ed arricchendo le élite al potere.
Ma Ricardo e i suoi discepoli hanno fatto i conti senza l’oste, come si dice a Roma: i milioni di elettori che sono stati lasciati per strada mentre le classi medio-alte saltavano sul carro del vincitore del libero commercio.
Sono quei «perdenti», per usare una parola cara al Presidente americano, che hanno mandato alla Casa Bianca uno come Trump. E che hanno imbarazzato gli esperti e i sondaggi con la decisione di far divorziare la Gran Bretagna dall’Unione Europea. E che hanno spinto al potere partiti-movimenti che cinque anni fa erano una barzelletta (o non esistevano) in Italia ma anche Germania, Polonia, Ungheria ed Austria.
Sono i diseredati del commercio, sedotti dalle sirene dell’anti-immigrazione, del protezionismo e del populismo, che fanno paura al Fmi, alle banche d’affari e ai mercati. Poco importa che gli Usa non costruiranno mai il muro addosso al Messico promesso da Trump, o che il Regno Unito soffrirà nel suo splendido isolamento dall’Europa, o che il populismo non ha mai aiutato i ceti bassi.
I fatti sono chiari: il libero commercio è stato il motore principale dell’ economia mondiale del dopo-guerra. Ma i governi e le istituzioni internazionali (Fmi, stiamo parlando di te) hanno solamente celebrato i vincitori, senza salvaguardare (o convincere) i vinti.
Obstfeld ha ragione quando dice che «sono già stati sparati i primi colpi in una guerra commerciale».
*Direttore di Dow Jones Media Group in Europa  francesco.guerrera@dowjones.com
Twitter: @guerreraf72