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 2018  aprile 18 Mercoledì calendario

Così la civiltà dell’immagine manda in pensione la firma

Ci metterei la firma, dicevamo un’era geologica fa, quando volevamo affermare l’importanza di un impegno da prendere. Provate a ripeterlo oggi a un adolescente, e vi guarderà con lo sguardo smarrito di uno che ha visto un alieno. E questo non solo perché ormai il corsivo è quasi scomparso dalle arti insegnate a scuola. Da metà aprile, infatti, negli Usa le maggiori carte di credito hanno smesso di chiedere ai clienti la firma sotto alle ricevute dei loro acquisti. Quello scarabocchio non ha più alcuna credibilità, come strumento per verificare l’identità delle persone, e con la sua prossima morte scompare anche un pezzo della nostra cultura.
La storia
Gli storici discutono se la firma sia nata nell’antico Egitto o in Iraq, come sostiene il Guinness World Records, secondo cui il primo autografo venne inciso intorno al 2600 avanti Cristo da un certo Adu, di professione scriba, sopra una tavoletta cuneiforme di creta. La prima firma su carta, papiro per essere precisi, è invece custodita a San Pietroburgo. Risale al 2130 avanti Cristo e viene dalla regione del Nilo. La parola con cui la descriviamo noi oggi dovrebbe derivare dal latino firmus, che indicava il carattere definitivo di un atto sancito con questo sigillo. Per secoli dunque la firma è servita a garantire l’identità delle persone nelle loro attività ufficiali, pubbliche e commerciali. Il suo carattere artistico ha iniziato invece a svilupparsi nell’800, quando sono cambiati i parametri in questo settore. Se il Papa assumeva Michelangelo per dipingere la Cappella Sistina, non c’erano dubbi sulla paternità del capolavoro. Quando però i pittori avevano cominciato a lavorare per se stessi, ispirati dalle proprie idee, la firma era diventata il marchio indispensabile per distinguerli. L’autografo infine si era sviluppato col culto della celebrità, come testimonianza di un contatto ravvicinato con la leggenda.
Corriamo adesso all’anno 2018, con la tecnologia digitale a portata di smartphone per tutti, e cerchiamo di capire cosa abbia ancora senso di tutto questo. Le grandi carte di credito, Visa, Mastercard, American Express, hanno già deciso che la firma è inutile e non la chiederanno più. I chip inseriti nelle tessere di plastica sono assai più comodi, e assegnano un codice unico a tutte le transazioni, rendendole più sicure. La Visa, ad esempio, ha notato una riduzione del 68% delle frodi.
La tecnologia biometrica
La rivoluzione però non si ferma qui. La tecnologia biometrica, ad esempio, ci consentirà di certificare con assoluta certezza qualunque operazione economica, contratto, accesso a sistemi digitali e anche ad aree fisiche. La firma digitale è già una realtà e le innovazioni continueranno, rendendo superflua e ridicola quella scritta. Alcune aziende stanno sperimentando l’impianto dei chip sotto pelle dei dipendenti, e a quel punto basterà passare la mano per essere riconosciuti, o nemmeno quello. I pagamenti si fanno già via smartphone. Le «bande degli onesti» sono destinate all’estinzione, o magari a trasferirsi nel mondo digitale, non perché Totò e Peppino non esistono più, ma perché sono stati scavalcati dalla tecnologia. E questa tendenza è inevitabilmente destinata ad accelerare.
Anche gli altri usi della firma stanno scomparendo. Un ragazzino che oggi va allo stadio, oppure a un concerto, non ci pensa neppure a farsi scribacchiare un autografo sulla carta. Meglio il selfie, o un video, che un secondo dopo sta già sui social media per condividere l’esperienza appena vissuta.
Gli artisti forse troveranno un modo di tenere in vita la scrittura del proprio nome, ma come gesto estetico, più che elemento per riconoscerli. Per il resto non è facile immaginare usi classici della firma, che non potranno essere sostituiti dalle tecnologie. Naturalmente pronosticare in maniera definitiva la morte di un’abitudine così radicata nella nostra cultura è pericoloso, ma è certo che le caratteristiche dell’identità stanno cambiando e la nostalgia non fermerà il progresso.