La Stampa, 18 aprile 2018
La crescita ostaggio del debito
Il rapporto pubblicato ieri dal Fondo Monetario Internazionale sull’economia mondiale (il World Economic Outlook o Weo) ci presenta un quadro decisamente positivo. Restano però alcuni significativi rischi. Il punto non è tanto cercare di indovinare se tali rischi si materializzeranno (prima o poi questo è inevitabile), ma valutare se, in caso di shock, l’economia mondiale sia in grado di sostenerli senza troppi patemi, se sia resiliente rispetto a imprevisti. Non sono convinto che questo sia il caso. Ma partiamo dai numeri.
L’Fmi stima che il Pil mondiale sia cresciuto del 3,7 per cento nel 2017, il tasso più elevato dal 2011. La crescita è prevista continuare a tassi leggermente superiori, 3,8 e 3,9 per cento, rispettivamente quest’anno e nel 2019. Anche l’area dell’euro cresce a tassi soddisfacenti: il 2,3 per cento l’anno scorso, il 2,4 per cento quest’anno, con un leggero rallentamento previsto nel 2019. L’Europa cresce meno dell’America trumpiana, ma solo per il minore aumento della popolazione: in termini di reddito pro capite abbiamo nettamente battuto gli Stati Uniti nel 2017; quest’anno e il prossimo dovremmo mantenerne il passo.
E Italia? Con un tasso di crescita dell’1,5 per cento sia nel 2017 sia nel 2018 (anche se su quest’ultima previsione comincio ad avere dubbi alla luce dei dati non brillanti finora disponibili per il primo trimestre) continuiamo a crescere molto meno della media europea, anche se in termini di reddito pro capite il divario si riduce.
Come sempre il Fmi ci dice anche quali sono i rischi che l’economia mondiale fronteggia. Tre i principali. Primo, una guerra sui dazi che mini la perdita di fiducia nella prosecuzione del processo di crescita. Secondo, shock di carattere politico, per possibili conflitti militari o cambiamenti nell’orientamento delle politiche economiche a seguito di elezioni (il Fondo cita esplicitamente l’Italia, insieme al Brasile, il Messico e la Colombia). Terzo, aumenti dei tassi di interesse più rapidi del previsto in caso di un’accelerazione dell’inflazione.
Ora, gli shock economici sono inevitabili. Gli economisti non sanno predire quando avverranno né quale sarà la possibile causa (chi prevedeva alla fine del 2006 la crisi del mercato sub prime che innescò la peggiore crisi economica globale dagli Anni 30)? Ma una cosa è certa: prima o poi ci saranno sorprese negative. La domanda cruciale è se l’economia globale sia in grado di assorbire tali shock facilmente oppure se la crescita che stiamo sperimentando sia troppo fragile. Abbiamo raggiunto un livello adeguato di resilienza? Temo che la risposta debba essere negativa.
Il problema principale è l’accumulo di debito privato e pubblico. L’Fmi non ne parla tanto in questo rapporto perché ne aveva già parlato di recente, incluso nel discorso fatto da Christine Lagarde all’ultima riunione dei G20 il 20 marzo scorso. Nel 2016 il debito del settore non finanziario aveva raggiunto i 150 trilioni di dollari (il 225 per cento del Pil mondiale), di cui due terzi costituivano passività del settore privato. Da allora il debito è aumentato ulteriormente, anche se il Weo non fornisce cifre aggiornate. Ci dice però che la qualità del credito si sta deteriorando. I tassi di interesse bassi hanno spinto gli investitori verso strumenti finanziari a maggior rischio e la quota di obbligazioni di bassa qualità negli indici obbligazionari dei Paesi avanzati è aumentata.
Questo accumulo di debito è l’effetto di forze di lungo termine tra cui predominano la globalizzazione ed i cambiamenti nella distribuzione del reddito. La globalizzazione ha portato a un aumento dell’offerta di lavoro meno specializzato che ne ha depresso la remunerazione, favorendo uno spostamento del reddito verso il capitale e redditi più elevati. La classe media si è impoverita (negli Stati Uniti il fenomeno è particolarmente evidente) e, per mantenere standard di vita adeguati, si è indebitata. Questo accumulo di debito è stato favorito da politiche monetarie molto espansive a partire dall’inizio della decade scorsa. Calibrare l’uscita da tali politiche, come prima o poi sarà necessario per evitare eccessive pressioni inflazionistiche e bolle speculative, non è affatto facile. L’aumento di tassi di interesse nella metà della scorsa decade fu la causa scatenante della citata crisi del mercato sub prime.
Lo stesso effetto destabilizzatore avrebbe un rallentamento della crescita economica, che causerebbe un aumento del debito rispetto al reddito privato e pubblico. Secondo il Fmi, la probabilità di una recessione nel corso del prossimo semestre non è elevata, ma non è neppure irrilevante: è di poco inferiore al 20 per cento per gli Stati Uniti, quasi del 25 per cento per l’area dell’euro e intorno al 30 per cento per il Giappone.
La domanda è se la storia possa ripetersi, se, in altri termini, gli effetti di uno shock di origine monetaria (un aumento più rapido del previsto dei tassi di interesse) o uno shock di origine «reale» (una recessione) non possano essere ingigantiti dall’esistenza di questa montagna di debito pubblico e privato. Si noti che, anche a livello di Paesi, gli squilibri continuano ad approfondirsi. I Paesi creditori (i principali essendo Cina e Germania) continuano ad accumulare avanzi di partite correnti, il che significa un ulteriore aumento della loro posizione creditrice verso il resto del mondo.
In conclusione, la crescita prosegue ma la sua resilienza a shock che prima o poi si verificheranno non appare certo assicurata.