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 2018  aprile 18 Mercoledì calendario

Scoperta la «casa» della schizofrenia

Anche gli scienziati oggi dicono grazie a Russell Crowe. Alla sua magistrale interpretazione, nel film Beautiful Mind, del professor John Forbes Nash jr, matematico americano premio Nobel nel 1994. Una vita passata tra schizofrenia e teorie dei numeri. Lo ringraziano perché ha fatto vedere al mondo anche dei non addetti ai lavori, eravamo nel 2001, quale vita può condurre (e qual è il livello di creatività) di una persona che soffre di questa patologia.
Un disturbo della mente, una psicosi. Che la ricerca, fino ad oggi, è riuscita ad affrontare con farmaci e psicoterapie ma non a conoscere esattamente la genesi. Ecco perché l’annuncio, ieri, della scoperta della culla della schizofrenia è stato preso dai ricercatori con un nuovo passo per programmare le terapie mirate. Il lavoro, pubblicato sulla rivista Neuroimage: Clinical, è stato da un gruppo del Center for Neuroscience and Cognitive Systems dell’Istituto italiano di tecnologia di Rovereto. Sono state, dunque, individuate le regioni cerebrali coinvolte nelle distorsioni della percezione sensoriale propria della patologia. «Aver individuato le zone che generano la malattia – spiega Angelo Bifone, coordinatore del team di ricerca – è il primo gradino per programmare le terapie farmacologiche più mirate contro questa malattia.
L’origine è piuttosto misteriosa, non conosciamo ancora bene gli aspetti neurobiologici che la determinano e l’ipotesi emersa negli ultimi anni è che ci sia una disconnettività. L’informazione che dovrebbe viaggiare tra aree cerebrali diverse non lo fa in modo corretto». 
LE CONNESSIONI
Il gruppo di Rovereto ha scoperto che nel cervello delle persone che soffrono di schizofrenia «c’è una frammentazione della connettività che è a carico di zone della corteccia finora trascurate». L’immagine è quella di pionieri che hanno deciso di andare oltre il conosciuto e di indagare per riuscire a costruire, come oggi si fa per molte patologie come il cancro, delle terapie su misura. Un abito, diciamo, farmacologico o psicoterapeutico ad hoc. Per quantità e qualità delle sostanze e delle psicoterapie da far seguire.
L’allargamento della ricerca sulle origini della schizofrenia (il termine scissione della mente per identificare la malattia venne coniato in Svizzera nel 1908 dallo psichiatra Eugen Bleuler) ha fatto oggi concentrare l’attenzione sulla corteccia che occupa la parte posteriore dell’encefalo o quella temporale. Candidate, ora, a diventare i nuovi obiettivi dei lavori in laboratorio. Una strada tutta nuova, un percorso che è solo l’inizio ma che, secondo i ricercatori, potrebbe davvero modificare il tipo di vita dei pazienti e dei loro familiari.
«È prematuro parlare di nuove cure – stigmatizza Bifone – ma è un successo importante. Ci indica la direzione da seguire e dove focalizzare la nostra attenzione. Stiamo analizzando dati rilevati da persone sane dal profilo genetico che li rende vulnerabili alla schizofrenia». Il lavoro scientifico, dunque, non è su chi ha già una diagnosi chiara ma su persone nelle quali sono stati individuati gruppi di geni che possono costiture un fattore di rischio. Questo significa monitorare l’eventuale modifica e percorso del patrimonio genetico direttamente collegato alla psicosi. «Nella schizofrenia – aggiungono i ricercatori di Rovereto – esiste sicuramente una componente genetica. Ma, come si sa, questa da sola non basta. Serve anche l’interazione con l’ambiente». Come sono anche degli eventi traumatici.
I VOLONTARI
Questo risultato è stato possibile grazie ad una tecnica di analisi messa a punto dallo stesso team. Questa ha permesso di interpretare, con una risoluzione superiore alle metodiche già esistenti e collaudate, la grande mole di dati raccolti dalle risonanze magnetiche effettuate su 94 pazienti e altrettanti volontari sani. Una certezza: la frammentazione della connettività cerebrale interessa soprattutto le regioni dei sensi. Questo vuol dire, specifica Cécile Bordier primo autore del lavoro che «la comunicazione è già alterata a un livello molto basso dell’elaborazione del segnale». Una sorta di cortocircuito che altera il pensiero, il comportamento, l’affettività. 
«Dobbiamo sempre ricordare che ogni malato ha una sua specifica storia. Biologica, psicologica e sociale. I fattori determinanti per il profilo della malattia – spiega Massimo Cozza, coordinatore del Dipartimento di Salute mentale di Roma 2, il più grande in Italia con un milione e trecento mila abitanti – Va assolutamente sfatato il luogo comune che bolla questi pazienti. La schizofrenia si può curare e si può anche guarire. Parliamo di una patologia che può convivere con la vita quotidiana. Che può essere compensata. Attraverso la farmacologia, la psicoterapia e l’integrazione sociale. Stanno avendo grandi risultati le abitazioni, cosiddette assistite per questi pazienti e i gruppi psicoterapici».