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 2018  aprile 18 Mercoledì calendario

«Avevo un elefante per amico, che nostalgia della mia Africa»

Di se stesso parla come di un «uccello migratore». Da piccolo aveva fatto amicizia con un cucciolo di elefante. «Mi accarezzava il viso con la proboscide. Con delicatezza seguiva il contorno dei miei occhi, del naso e della bocca. Era il suo modo di conoscermi». Si addormentava con il rumore dei galagoni (piccoli primati notturni) che zampettavano sul soffitto delle sue residenze in Tanganika, l’odierna Tanzania, dove il padre era governatore per conto di Londra, saltando da una città all’altra. Sfogliando l’album delle foto d’infanzia, nella sua casa piena di ricordi a Trastevere, Roma, oggi l’ 83enne Jonathan Kingdon, la chioma da leone imbiancata, ritrova se stesso a tre anni, seduto accanto a due cuccioli di leone. Un’altra immagine ritrae la madre con un leopardo che le fa le fusa sul pancione. Dentro c’era Jonathan.
Di animali, questo pittore, scultore e biologo evoluzionista dell’università di Oxford, nato a Tabora, al centro della Tanzania e “atterrato” oggi a Roma, dove spesso si prende una pausa tra le sue migrazioni, ne ha conosciuti un’infinità. Ci ha vissuto in mezzo. Li ha descritti nella loro anatomia, nel loro ambiente, raccontandone storia ed evoluzione. «Quanti ne ho dipinti? Non so, migliaia», racconta estraendo i suoi libri e i cataloghi delle sue opere dallo scaffale di legno delle cose preziose: “East African Mammals: An Atlas of Evolution in Africa” in 7 volumi e “Mammals of Africa” in 6 volumi, solo per citare i più appariscenti. Dall’Africa Kingdon è appena tornato, per partecipare in Kenya ai funerali di un amico: «Alle esequie c’erano anche elefanti e giraffe». Ma il modo in cui è trattato il continente, con la natura fatta a brandelli, oggi lo indigna. “Distruggere l’Africa è come separarci da noi stessi”, ha scritto. «Il paese continua a essere stuprato, come sempre nella sua storia. Prima gli arabi, poi gli europei, ora i cinesi».
La mamma, artista, ha insegnato al piccolo Jonathan a disegnare prima che a scrivere. «L’evoluzione dell’uomo è iniziata grazie alle mani. Il cervello è arrivato molto dopo». Oggi a Roma, dove continua a dipingere, il naturalista resta incantato dai gabbiani che dal Tevere si spingono fino alla sua finestra o dai pappagalli colorati che spiccavano sul bianco, nei giorni della neve. Dopo la Brexit ha chiesto la cittadinanza italiana: come quella di sua moglie e dei cinque figli. «Non sopporto il concetto di nazionalità. Vorrei vivere negli Stati Uniti del mondo. Nel frattempo, non riesco ad accettare l’idea di abbandonare l’Unione Europea». Speriamo che anche la politica del nostro paese non lo deluda, allora. «È consono alla nostra storia evolutiva chiudersi nel proprio gruppo, di fronte all’arrivo di individui estranei», dice con ironia. Ma Kingdon non esita a definire il razzismo «profondamente stupido». Male hanno fatto gli americani a dividere la società in bianchi e neri. «Una dicotomia completamente inventata. Gli uomini possono essere superpigmentati o depigmentati. Ma tutti siamo ibridi». Oggi la moglie gli ha regalato un servizio che sequenziava il suo genoma. «Mi ha sorpreso trovare tracce di Dna sardo». Quanta memoria in quella doppia elica. «Nessun sistema di codificazione elettronica può raggiungere anche solo una minima parte della sua capacità di immagazzinare informazioni».
Le prime uscite a caccia in Tanzania, per “Yonosani Kingidoni” (il nome in swahili) avvennero con il suo baby sitter: un uomo scelto dal padre, come la cultura di ambiente semi- militare imponeva. Escursioni nella natura di “nostra madre Africa”. Qualche spavento? «Un leone che ti fissa, se non sei armato, fa davvero paura. A 6 anni, misi il piede su un coccodrillo. Ma lui si terrorizzò più di me». In Italia, non a caso, Kingdon arrivò atterrando dal cielo. Era l’inizio del 1940. «Il servizio postale dall’Africa usava degli idrovolanti che univano i territori dell’impero. Facevano scalo nel lago di Bracciano. Viaggiavo con mia madre, c’era un buco nella fusoliera e nevicava. Io, a 4 anni, giocavo a pallate con il pilota». A 8 anni fu il momento del collegio, in Africa, per imparare l’inglese, con il quale faticava a raggiungere la familiarità che aveva con lo swahili. «Fu come entrare in prigione. Ma la notte, con la torcia, sotto alle lenzuola sfogliavo un libro di natura che mi aveva regalato mia madre. Ritrovavo la libertà. Così imparai che l’evoluzione è il motore della vita sulla Terra».