la Repubblica, 18 aprile 2018
Ultime «lezioni» pubbliche a Banda Aceh
BANDA ACEH Fischia lo scudiscio che colpisce la schiena di Aisha, 19 anni, studentessa in ingegneria sorpresa in compagnia di un compagno di corso in un’aula dell’università. I due non si stavano scambiando né carezze né baci bensì gli appunti della lezione, ma poiché non sono sposati per la polizia del vizio e della virtù che li ha scovati erano in flagrante “delitto di promiscuità”. Il reato è costato a entrambi 38 bastonate inferte da un boia incappucciato con un frustino lungo e flessibile in legno di Malacca, sul palco davanti alla moschea. All’inizio dell’esecuzione, che qui chiamano cambuk, la “lezione”, Aisha si è coperta il viso con le mani per nascondersi davanti alle decine di smartphone che fotografavano il suo martirio. Dopo i primi colpi, la ragazza è scoppiata in un pianto disperato e i singhiozzi si sono presto tramutati in urla strazianti.
«Eppure il suo aguzzino non le ha lacerato le carni né le ha fatto uscire una sola goccia di sangue», mi spiega nel suo ufficio il responsabile di questo supplizio medievale, l’imam Mairul Hazani, un omino con le labbra carnose e un fez nero che a Banda Aceh dirige il dipartimento della sharia, o legge islamica. Nella provincia più settentrionale dell’isola di Sumatra, dove nel 2004 lo tsunami provocò 180mila morti, da 18 anni la “legge di Dio” è scrupolosamente applicata assieme a quella dello Stato indonesiano, aggiungendo molti reati a quelli del codice penale. Ed è l’imam Hazani a stabilire quante frustate comminare in base al crimine religioso commesso, come il sesso fuori dal matrimonio, il gioco d’azzardo o il consumo di alcolici, ma anche i rapporti omosessuali e, se si è una ragazza, l’indossare pantaloni troppo aderenti o uscire da sola dopo le 22. «Solo il Corano ha la risposta alle domande moderne, condannando tutto ciò che ci fa del male», sostiene l’imam che, dopo esser stato più volte esortato a farlo, tira fuori da un armadio il ratan, il frustino del cambuk, con cui comincia a mimare il gesto: «Non bisogna spalancare il braccio altrimenti si procura troppo dolore e la “lezione” può rivelarsi controproducente».
Hazani spiega che, salvo brevi parentesi, la sharia c’è sempre stata a Banda Aceh, perché è dal “balcone sulla Mecca”, come una volta veniva chiamata questa regione, che nel XII secolo l’Islam penetrò nell’arcipelago indonesiano. Infine, come volesse ulteriormente giustificare l’esposizione delle sue vittime al pubblico ludibrio, tira fuori la sua ultima carta: «Alcuni scienziati hanno dimostrato che il cambuk fa anche calare la libido». Inutile chiedergli di quali scienziati si tratti o della validità dei loro metodi investigativi.
Nel resto dell’Indonesia la sfera religiosa è separata da quella politica, sebbene con i suoi 255 milioni di abitanti, l’87% dei quali musulmani, sia il Paese islamico più popoloso al mondo. Eppure, il suo smiling Islam, come lo chiamano gli indonesiani, o meglio il sincretico Islam “nusantariano” (da Nusantara, l’arcipelago, ossia l’Indonesia) è oggi assediato dagli ulema più conservatori e bigotti. «Cresce l’intolleranza religiosa, sempre più donne sono costrette a indossare l’hijab e le autorità hanno iniziato a vietare l’alcol in molte province», spiega l’intellettuale e specialista di questioni religiosi Madi Prabowo nel suo elegante appartamento di Giacarta. «E che dire di Bsuki Purnama, l’ex governatore di Giacarta, protestante e di origini cinesi, al quale pochi giorni fa la Corte suprema non ha voluto ridurre la pena di due anni di prigione per “blasfemia” inflittagli per aver impropriamente citato in campagna elettorale una sura del Corano? I giudici hanno avuto paura dei fondamentalisti scesi in piazza per chiedere prima il suo arresto e poi la condanna».
Condanna che ha traumatizzato le minoranze etniche e religiose, le quali con la possibile riconferma di un cristiano come governatore della capitale avevano sperato nell’avvento di un’Indonesia non settaria e multiconfessionale.
Per Prabowo la radicalizzazione dell’Islam indonesiano è una reazione alla secolarizzazione imposta nel secolo scorso, prima dal regime progressista di Sukarno (1945-1967), poi da quello militare di Suharto (1967-1998).
«Nel 1949 gli islamisti delle quattro isole più importanti Giava, Sumatra, Sulawesi e Borneo – si sollevarono contro Sukarno chiedendo la sharia.
L’insurrezione durò 13 anni e alla fine sfociò in uno dei più spaventosi massacri del ’900, quello del 1965 contro i comunisti indonesiani che provocò quasi un milione di vittime».
Certo, il Califfato e lo Stato islamico sono oggi molto criticati dalla maggioranza delle organizzazioni islamiche del Paese, e per la Siria e l’Iraq è partito solo un migliaio di foreign fighters indonesiani, meno che dal Belgio. «Ma c’è il rischio che gli imam più conservatori si aprano all’estremismo più folle, quello degli attentati di Bali (200 morti nel 2002, ndr) e di Giacarta. A dare manforte a questi imam ci sono i tanti giovani inviati a studiare nei Paesi del Golfo e che tornano a predicare il wahabismo, che è la forma più rigida dell’Islam sunnita, nelle nostre moschee», dice ancora Prabowo.
Negli uffici della sharia di Banda Aceh si è tenuta la settimana scorsa una riunione su come purificare l’Islam dei suoi aspetti troppo permissivi al fine di scongiurare un nuovo tsunami, ancora interpretato come una punizione divina. Del cataclisma che 13 anni fa funestò la regione rimangono poche tracce: un museo, una nave di migliaia di tonnellate che i flutti spinsero quattro chilometri nell’entroterra e, al porto, cento pescherecci che marciscono lentamente. Furono allora offerti dall’Unione europea alla città devastata. Ma non hanno mai preso il mare, perché non idonei a navigare nell’Oceano indiano.