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 2018  aprile 17 Martedì calendario

Adorati puzzle dove tutto finisce al posto giusto

Giochi da tavolo con dadi e pedine, puzzle da 1000 e più pezzi, biglie di vetro, trenini in legno, carte da gioco e passatempi da salotto che coinvolgono intere famiglie in avvincenti sfide domestiche. Usanze d’altri tempi e dal sapore forse un po’ démodé ed obsoleto in un’epoca come la nostra, dominata altrimenti dalle Playstation, dagli X-Box o dai Nintendo e nella quale ai giochi analogici sono subentrati quelli digitali, alle tavole in cartone laminato le piattaforme virtuali in versione app da scaricare comodamente sugli smartphone. Ma i vecchi giochi di società non solo (r)esistono ancora, ma da qualche tempo a questa parte sono protagonisti di un inaspettato quanto improbabile ritorno sulla scena. Un vero e proprio boom che si rispecchia, ad esempio, nei bilanci della Ravensburger, la celebre azienda tedesca leader europea nella produzione di giochi da tavolo e puzzle. Una start-up fondata nel lontano 1883 da un certo Otto Robert Maier e rimasta da allora sempre di proprietà dei suoi discendenti. Negli ultimi 12 anni il fatturato dell’azienda, che ha sede nell’omonima cittadina medievale nei pressi del Lago di Costanza, è quasi raddoppiato, salendo da 280 milioni di euro nel 2005 ad oltre 473 milioni lo scorso anno.
Meno bimbi, più regali
«Assistiamo ad un fenomeno paradossale. Soprattutto nei Paesi più industrializzati vengono messi al mondo sempre meno bambini. Allo stesso tempo proprio in questi Paesi vendiamo sempre più giochi», confessa Clemens Maier, amministratore delegato dell’azienda e pronipote del fondatore Otto Robert Maier. Tra i principali e più popolari giochi dell’azienda figurano «Il Labirinto Magico», «Scotland Yard», «La Lepre e la Tartaruga» o «Memoria» («Memory»), il celebre gioco per bambini e adulti in cui i giocatori devono accoppiare le carte uguali. Lanciato per la prima volta sul mercato nel 1959, ne sono stati venduti fino ad oggi più di 50 milioni di esemplari. «La gente sente di nuovo il bisogno di stare in compagnia. La rivoluzione digitale ha finito per isolarci. Sia sul posto di lavoro sia a casa e nel tempo libero passiamo più tempo con i computer, tablet e smartphones che non con i colleghi o con i vicini», spiega Wolf Günthner, dell’associazione tedesca dei produttori di giocattoli. L’attuale successo dei giochi analogici rispecchia, secondo lui, un diffuso desiderio di aggregazione e di condivisione.
A profittare di questo trend è anche la Ravensburger, un’azienda a conduzione familiare che oggi conta oltre 2 mila dipendenti e che ogni anno lancia sul mercato qualcosa come 850 fra giochi e puzzle. Il 57% della produzione viene esportato in più di 50 Paesi. Il restante 43% è, invece, destinato al mercato nazionale. I tedeschi vanno matti per i giochi di società. Ogni anno ne acquistano per un totale di 500 milioni di euro. E nelle vetrine dei negozi specializzati rispuntano grandi classici come Monopoli, Risiko!, Scarabeo, Non t’arrabbiare o l’intramontabile Tombola.
Famiglie «patchwork»
Ma più giochi da tavolo e di società nelle vetrine, sugli scaffali dei salotti e nelle stanze dei bambini non significa automaticamente che la gente abbia davvero riscoperto il piacere di giocare. Secondo la sociologa Karin Schmidt Ruland, in forte aumento sono soprattutto le vendite e i fatturati, ma non le nostre abitudini ludiche. Molti bambini e adolescenti di coppie separate vivono in famiglie patchwork, in due e più appartamenti. Altri bambini trascorrono molto tempo con i nonni e con le «tate». E da tutti ricevono in continuazione regali e giocattoli e, non di rado, anche giochi da tavolo e di società. Secondo la sociologa, non saranno certo questi giochi a distogliere figli, nipoti e cuginetti dai loro smartphones e dalle realtà virtuali dei display digitali.
Anche piccole e medie aziende tradizionali con alle spalle una lunga storia e tanta esperienza si sono cimentate nel settore dei giochi elettronici e on-line, delle apps e dei programmi interattivi. Per stare al passo con i tempi e per non soccombere alle leggi del mercato. Nel caso specifico della Ravensburger la famiglia dei Meier non ha ottenuto molto successo. Da quando sono tornati a concentrarsi sui prodotti di sempre, invece, il fatturato è tornato a crescere e gli affari vanno di nuovo a gonfie vele.
Walter Rauhe
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Alex Klein: «Così ho inventato Kano, il computer che si costruisce come un Lego» Un computer dedicato ai bambini, che si monta come un Lego. Da costruire e programmare per gioco, trasformando problemi complessi in passaggi semplici, da affrontare uno per volta. È Kano, un piccolo elaboratore che arriva a casa confezionato in una scatola arancione, insieme a un manualetto a prova di un bambino di sei anni. L’azienda che lo produce in tre anni ha venduto oltre 300 mila pezzi incassando più di 40 milioni di dollari e nel 2016 ha vinto un riconoscimento come la startup a più rapida crescita del Regno Unito. A fondarla è stato un 27enne inglese, Alex Klein. Ci risponde al telefono da Shenzhen, in Cina, dove sta visitando gli impianti produttivi di alcuni fornitori. «L’idea – racconta – me l’ha data un mio cuginetto di 6 anni». È un ex giornalista. «Lavoravo a Newsweek e mi sono ritrovato a casa quando l’edizione cartacea è stata chiusa». Era fine 2012, il settimanale tornò in edicola nel 2014. Ma intanto Klein aveva preso un’altra strada. «Ho iniziato un corso di laurea in politica economica a Cambridge. Sono sempre stato un po’ ossessionato dall’idea di spiegare le cose, di demistificarle e di prendere argomenti complessi e chiarirli con delle buone storie. Mio cugino mi chiese se c’era qualche computer che si potesse costruire come i Lego. Allora mi è venuta l’idea di un libretto di storie che racconta come montare un computer, come una poesia o un articolo di giornale. Ci siamo registrati su Kickstarter e siamo diventati il progetto educativo col maggiore crowdfunding mai realizzato. Oggi vendiamo questo kit in 86 Paesi del mondo».
Kano è inserito in oltre 2.500 programmi educativi in tutto il mondo. Scuole, circoli, istituzioni educative, programmi governativi, biblioteche. L’idea è sostituire il consumo con la creatività. Oggi i ragazzi usano gli smartphone tutto il tempo, ma in modo passivo. Eppure «ciascuno di questi piccoli terminali è più potente del computer che ci permise di portare l’Apollo sulla Luna». Klein punta a ridare ai computer quel ruolo di «biciclette per la mente» che Steve Jobs aveva intravisto ai primi anni della Apple. «A quell’età pensi a modo tuo – ragiona Klein – fai domande. Per questo il computer te lo devi costruire da solo: per fare il passaggio dal consumo alla creazione, dall’uso alla manipolazione».
Kano è un progetto particolarmente riuscito ma non è isolato. Negli ultimi anni questa elettronica pedagogica è cresciuta prepotentemente. Nelle scuole del Regno Unito, grazie a un progetto della Bbc, a milioni di bambini di 7 anni è stata distribuita Microbit, una piccola scheda elettronica programmabile su cui imparano i rudimenti della programmazione. Mentre negli Usa hanno enorme successo Dash e Dot, due simpatici robot color pastello distribuiti da Wonder Workshop, una azienda californiana fondata da un indiano.
Ma anche in Italia molte cose si muovono in questa direzione. Proprio a Ivrea – all’Interaction Design Institute, fondato da Olivetti e Telecom – è nato nei primi anni 2000 Arduino, scheda programmabile che permette di realizzare dispositivi di domotica ed è finita nelle scuole di tutto il mondo. E negli ultimi anni, per sviluppare il «pensiero computazionale» tra i più piccoli, il ministero dell’Istruzione ha lanciato «l’ora del codice», coinvolgendo 5.800 scuole.
Ma anche fuori dalle aule sono migliaia i progetti in campo. Codemotionkids e Robotiko, due delle organizzazioni maggiori, realizzano centinaia di corsi di programmazione, mentre si è diffusa in tutta la penisola una rete di CoderDojo, vere e proprie palestre di programmazione organizzate da un esercito di appassionati genitori. E il 12 maggio Torino ospiterà la finale del Kids Game Jam, dove squadre di piccoli programmatori da tutto il mondo si sfideranno a colpi di codice per scrivere i migliori videogiochi.

Fabio De Ponte