La Stampa, 17 aprile 2018
La Madonna pellegrina contro l’Eroe dei Due Mondi
È sera e il capitolino colle Oppio è come un faro illuminato dai fuochi d’artificio. Signore e fanciulle sciamano via mentre le ultime oratrici ricordano alle aderenti all’Udi (Unione donne italiane) dove apporre la croce elettorale: sul faccione di Giuseppe Garibaldi stampigliato sul simbolo del Fronte democratico popolare. La manifestazione festosa è organizzata dal partito di Palmiro Togliatti e da quello di Pietro Nenni, apparentati nel Fronte in vista del vicinissimo appuntamento: le elezioni del 18 aprile 1948. Un appuntamento destinato a rivelarsi una data fondamentale nella vita della giovane Repubblica italiana.
L’apertura dei seggi, quella domenica di cui ricorrono i 70 anni domani, siglò per il Paese il vero passaggio dal fascismo alla democrazia. E la sfida che oppose lo Scudo crociato di Alcide De Gasperi alle sinistre (gli altri raggruppamenti erano Unità socialista di Ivan Matteo Lombardo e la destra, divisa tra liberali, monarchici e i neonati missini) segnò una difficilissima transizione, ricca di colpi di scena e di sorprese: avvenne quando era appena iniziato lo scontro tra i due grandi blocchi Est e Ovest che inveleniva i toni e rendeva più temibile il confronto.
La campagna per la designazione dei partiti che dovevano reggere le sorti del Paese fu segnata da un’atmosfera da guerra di religione e di lotta a coltello. Ma fu contraddistinta anche da una straordinaria e gioiosa mobilitazione collettiva. Nelle settimane antecedenti lo storico evento si susseguirono in tutta la penisola lotterie, incontri danzanti e comizi volanti con oratori improvvisati che salivano su una sedia o su un palchetto e facevano propaganda. A sinistra andavano per la maggiore pure le canzoni, come «Il diciotto aprile / a votare noi andrem / per il Fronte uniti / tutti quanti voterem», o come «Le elezioni le preparò Scarpìa / per schiacciare il Fronte popolare / Viva il Ministro della polizia».
Quarantasette milioni di abitanti dello Stivale – erano 29,1 milioni i cittadini che si apprestavano ad andare alle urne -, nonostante il piano Marshall che aveva dotato di aiuti economici l’Europa, erano provati dall’esperienza del fascismo e della guerra. Il 23 per cento delle abitazioni non aveva l’acqua e il 73 per cento era privo di servizi igienici. Era dunque assai diffusa la speranza che la competizione avrebbe cambiato il tenore di vita. Per questo il 1948 che, come diceva Nenni, avrebbe dovuto essere «un 1848» fu il teatro di un evento inatteso: un’incredibile partecipazione popolare al voto.
La bestia nera più temuta da tutti i partiti era l’astensionismo. Le sinistre per combattere la zona grigia degli indifferenti avevano arruolato i più noti intellettuali, da Carlo Levi a Renato Guttuso, da Domenico Purificato a Giacomo Debenedetti. Irritato da queste qualificate presenze, padre Agostino Gemelli chiamò gli artisti e gli scrittori del Fronte «borghesi cattivelli». La Dc, con i Comitati civici di Luigi Gedda, per sconfiggere le resistenze degli «amorfi» e dei «senza patria» si dotò di un ufficio psicologico per la propaganda, di pellicole da proiettare nei luoghi di culto e di altoparlanti che sulle soglie delle chiese ammonivano: «Da buoni cristiani, se votate Garibaldi votate contro Dio e quindi sarete scomunicati».
Sempre i Comitati di Gedda s’impegnarono nell’organizzazione di lunghe processioni notturne molto spettacolari e scenografiche della «Madonna pellegrina». La statua di Maria accompagnata da veglie, preghiere e canti di Salve Regina approdava così non solo nelle comunità parrocchiali ma anche nelle fabbriche tra gli operai e nelle campagne tra i braccianti: «Oggi di fronte all’ora di Satana», spiegava il giornale cattolico La luce, «è iniziata l’ora di Maria. La Vergine sacra (…) passa di trionfo in trionfo. (…) È questa l’ora dell’azione, perché è anche l’ora delle tenebre». Enormi cartelloni targati Dc predicavano: «Sei senza cervello? Vota falce e martello» ed esortavano «Salvate l’Italia dal bolscevismo».
Il Fronte controbatteva con il volto sorridente di Garibaldi: «Se voti per me voti per te». L’Eroe dei Due Mondi era poi esibito durante i tour di camion addobbati con il tricolore «per la raccolta di soldi, di polli e di uova per la mobilitazione delle masse». Tra i cartelloni più diffusi dalle sinistre c’era anche «Scudo crociato, scudo di morte» accompagnato da un gigantesco disegno dove un soldato americano aveva un randello in mano: «È cominciata la Santa Crociata per la salvezza della civiltà occidentale. Contro il fascismo vota Garibaldi!» era la scritta sottostante alla minacciosa immagine del milite statunitense.
I manifesti diffusi dai militanti democristiani furono 5 milioni e 400.000, a cui si aggiunsero 38 milioni di volantini e poi cartoline, immaginette, striscioni: il totale fu di 56 milioni di pezzi. Tutta questa immensa produzione cartacea servì ad alimentare un dibattito politico che, surriscaldato dalle divisioni della Cortina di ferro, non fu mai centrato sui programmi ma sulle scelte di campo. A incentivare, lo osservò il giovane Enrico Berlinguer, la passione politica e la presenza in massa alle urne, fu indubbiamente anche lo «spirito della Resistenza». Che si fece sentire pure successivamente, nei mesi più difficili del 1948, quando si sfiorò la guerra civile dopo l’attentato a Togliatti e dopo gli scontri sanguinosi a seguito della destituzione del prefetto Ettore Troilo.
Il Pci, però, contrariamente a tutte le previsioni, ai seggi non fu premiato e ottenne il 30,98 per cento dei voti, mentre la Democrazia cristiana conquistò il 48,51 per cento delle preferenze e, caso unico nella storia della Repubblica, si aggiudicò la maggioranza relativa dei voti e quella assoluta dei seggi, divenendo il principale partito italiano per quasi cinquant’anni, fino al suo scioglimento nel 1994. Aveva votato il 92 per cento degli elettori, un successo strepitoso. E l’Italia continuò a registrare in Europa il primato della partecipazione alle urne più alta fino agli anni Novanta, quando declinò l’affezione per i partiti. Nell’agone elettorale, però, gli avversari non smisero mai di sfidarsi con lo stesso piglio feroce e con l’accanimento degli anni della Guerra fredda. Il 18 aprile fu il primo spartiacque nella storia della nostra democrazia.
Mirella Serri
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Ma quel giorno non fu un “giudizio di Dio”
Per gli italiani di allora, la giornata del 18 aprile 1948 fu una sorta di «giudizio di Dio». Le elezioni politiche furono vissute come una ordalìa tra il bene e il male, tra due mondi contrapposti, divisi su tutto: agli inizi della Guerra fredda, Usa contro Urss voleva dire anche capitalismo contro comunismo, democrazia contro dittatura, cristianità contro ateismo. A destra e a sinistra, soprattutto nella Dc e nel Pci, c’era un’attesa quasi messianica, un’ansia di misurarsi, resa più vibrante dalla riscoperta di una contesa elettorale finalmente libera da parte di un’opinione pubblica impaziente di scrollarsi di dosso venti anni di conformismo, di partiti unici, di plebisciti, di totalitarismo fascista.
Non c’è dubbio che oggi, a 70 anni di distanza, molte di quelle sensazioni appaiono ampiamente giustificate. La possibilità di finire – attraverso il voto – in uno o nell’altro dei due blocchi in cui si divideva il mondo bipolare uscito dalla Seconda guerra mondiale era terribilmente concreta. Votare per la Dc o votare per il Fronte – in cui si erano uniti comunisti e socialisti – era una scelta di campo che non ammetteva mediazioni.
Pure, oggi, in chiave storiografica, la dimensione emotiva che emerge nelle testimonianze dei protagonisti tende a lasciare il posto a considerazioni che possono giovarsi del «senno di poi» tipico degli studi storici. In questo senso, l’Italia del 1948 suggerisce l’immagine di uno di quei grattacieli che vengono demoliti con la dinamite: un attimo prima svettano intatti, un attimo dopo crollano rovinosamente. Per intenderci, dieci anni dopo, nel 1958, dell’Italia del 1948 non era rimasto quasi più niente.
La grande trasformazione legata al boom economico e allo sviluppo industriale ridisegnò la struttura economica del Paese, riplasmandone mode, abitudini, comportamenti politici, scelte individuali. Dal declino della piccola proprietà contadina risultarono stravolti anche tutti quei riferimenti ideologici «precapitalistici» che ne avevano sostenuto, insieme a un senso di chiusura esclusivistica, un forte sentimento di compattezza e di identità collettiva; i rapporti interpersonali, l’organizzazione familiare, i ruoli sessuali si decomposero contemporaneamente all’inserimento di migliaia di individui in situazioni lavorative e esistenziali completamente diverse da quelle originarie. Il passaggio brusco e repentino da Paese contadino a potenza industriale (la quinta nel mondo!) svuotò dall’interno molti dei riferimenti politici, sociali, culturali dell’Italia del 1948. Consegnando agli storici un’altra riflessione che non coincide con la sensazione dei testimoni di allora.
Oggi è infatti sempre più chiaro come, riferito al confronto tra il Pci e la Dc, quanto allora appariva ferocemente contrapposto nel «cielo» della politica, presentasse ampie «zone grigie» su terreni più legati alla quotidianità dei comportamenti collettivi. A fronteggiarsi erano, cioè, essenzialmente due centrali di propaganda. Ma quanto ci si allontanava dalla politica e ci si avvicinava alle scelte più private, le tinte dello scontro ideologico tendevano a stemperarsi e a sbiadire. Sulla famiglia, sul ruolo della donna, si registravano convergenze che ritornavano puntualmente su altri valori «di base», dai comportamenti sessuali alla concezione del matrimonio, a tutti quelli che segnavano in particolare il rapporto individuo-società.
Identica era, inoltre, una concezione edificante del lavoro che accomunava l’operaio «di mestiere» che si riconosceva nel Pci e il coltivatore diretto che votava per la Dc. In questa ottica, oggi si sottolinea nella forte, comune connotazione ideologica dell’impianto dei due partiti una sorta di funzione pedagogica e protettiva. Almeno fino alla fine degli Anni 50, i partiti avrebbero aderito ai contenuti e ai valori più tipici di una società ancora essenzialmente contadina, rispettandone ruoli e gerarchie consolidate e proteggendoli da ogni brusco mutamento; poi, entrambi avrebbero dovuto cambiare pelle per adeguarsi a un’Italia che di colpo alla frugalità aveva sostituito il superfluo e che, alla contrapposizione tra comunismo e anticomunismo, preferiva ormai la possibilità di sentirsi tutti figli dello stesso benessere.Giovanni De Luna