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 2018  aprile 17 Martedì calendario

Se lo Stato si fa causa

L’ultima pietra dello scandalo in ordine di tempo si chiama palazzo Nardini. È un edificio quattrocentesco nel centro di Roma che stava per essere ceduto dal fondo Invimit a un ignoto privato e che in seguito alle rivelazioni di Repubblica il Soprintendente Francesco Prosperetti ha deciso di rendere inalienabile. Non per una personale levata di capo ma perché il codice dei beni culturali stabilisce (agli articoli 10 e 54) il divieto di vendere immobili pubblici che siano “testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive e religiose”. Qual è, appunto, palazzo Nardini: fino al Settecento sede del governatorato di Roma, poi Pretura, fino a diventare negli anni Settanta la Casa delle Donne. Il venditore, ovviamente, non l’ha presa bene. E sarebbe perfino comprensibile la minaccia, ventilata dal suo presidente Massimo Ferrarese, di «chiedere i danni al ministero dei Beni culturali». Se non fosse per un particolare niente affatto irrilevante, e cioè che la società Invimit è di proprietà del ministero dell’Economia. Il che fa intravedere uno scenario singolare: quello dello Stato che fa causa allo Stato.

Assurdo, penserete. Già. Proprio assurdo, ma non così raro in un Paese nel quale la burocrazia prescinde generalmente dal buonsenso. Anche se finora, fra le tante assurdità, non avevamo ancora sentito un manager pubblico qual è Ferrarese affermare che l’eventuale risarcimento (cento milioni!) richiesto dal ministero dell’Economia al ministero dei Beni culturali andrebbe, testuale, «a ridurre il debito pubblico». Ignorando, evidentemente, che il denaro passerebbe semplicemente da una tasca all’altra. E siamo pronti a scommettere che gli avvocati sarebbero gli unici a guadagnarci. Profumatamente e soldi pubblici, per giunta.
Ma questo dettaglio non ha mai tolto il sonno a quanti si sono diligentemente impegnati nel mettere lo Stato nelle condizioni di fare causa a sé stesso. Va precisato che qui non si tratta di contenziosi istituzionali frequentissimi che riguardano la normale dialettica fra pezzi dello Stato: si può citare come esempio il ricorso durissimo al Tar del Comune di Roma contro la decisione ministeriale di istituire il parco archeologico del Colosseo.
Per far capire di che cosa parliamo bastano un paio di storie. La prima è quella della liquidazione della Stretto di Messina, la società pubblica che avrebbe dovuto realizzare il ponte fra Scilla e Cariddi. Liquidazione scattata nel 2013 che secondo una legge dello Stato sarebbe dovuta durare non più di un anno, ma che a quasi cinque anni di distanza è ancora in corso: e questo pure grazie al contenzioso che si è innescato quasi subito con lo Stato. La ragione? Siccome lo Stato ha deciso con una legge che il ponte non si fa più, la società statale che avrebbe dovuto curare l’operazione ha chiesto i danni allo stesso Stato che è il suo proprietario. Ammontare: 325 milioni 750 mila e 660 euro, per l’esattezza. Sorvoliamo sul merito della questione, limitandoci a riportare il giudizio della Corte dei conti contenuto in una relazione di qualche mese fa: “Tale contrasto tra l’ente strumentale e l’amministrazione statale risulta contrario ai principi di proporzionalità, razionalità e buon andamento dell’agire amministrativo, tenuto anche conto che quanto eventualmente ottenuto in sede di contenzioso ritornerebbe agli azionisti pubblici”. Una follia pagata a caro prezzo dai contribuenti.
La seconda storia è quella della carta d’identità elettronica. Centinaia di migliaia di euro e una decina di anni fra le carte bollate è stato il prezzo di una causa fra una società del gruppo Finmeccanica, controllato dal Tesoro, e una società controllata al 70% dal Poligrafico dello Stato e al 15% dalle Poste, quindi sempre di proprietà del Tesoro. Il tutto senza che nessuno, al Tesoro, avesse mai sentito il bisogno di alzare il telefono e dirgli di smetterla. Nella fattispecie la contesa, costata 700 mila euro di parcelle legali soltanto in prima battuta, riguardava un appalto per la carta d’identità elettronica fra soggetti pubblici. Un fantasma che aleggia sull’Italia da una ventina d’anni almeno.
La morale è avvilente. Perché se l’Italia è il Paese con il maggior numero di avvocati e la giustizia più ingolfata, anche la burocrazia non rinuncia a dare il suo bel contributo. Per non parlare dei soldi buttati dalla finestra.