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 2018  aprile 16 Lunedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - MISCELLANEA SIRIANAGIORDANO STABILE LASTAMPA.ITLe squadre di tecnici dell’Organizzazione internazionale per la proibizione delle armi chimiche (Opac) non sono ancora potute entrare a Douma per indagare sul presunto attacco chimico del 7 aprile, nonostante siano da sabato a Damasco, che dista appena dieci chilometri

APPUNTI PER GAZZETTA - MISCELLANEA SIRIANA

GIORDANO STABILE LASTAMPA.IT

Le squadre di tecnici dell’Organizzazione internazionale per la proibizione delle armi chimiche (Opac) non sono ancora potute entrare a Douma per indagare sul presunto attacco chimico del 7 aprile, nonostante siano da sabato a Damasco, che dista appena dieci chilometri. Il governo siriano e la Russia hanno sollevato “problemi di sicurezza”. Il direttore dell’organizzazione Ahmet Uzumcu, all’Aia per una riunione di emergenza, ha confermato che funzionari siriani e russi «hanno informato la squadra che ci sono ancora problemi di sicurezza da risolvere prima che la missione possa essere operativa». 

Sono passate poche ore dall’intervista tv Emmanuel Macron e la Casa Bianca smentisce le parole del presidente francese: «Il presidente Trump è stato chiaro affermando che vuole un ritorno a casa delle forze americane in Siria». 

 

 

Una risposta netta a quanto aveva dichiarato Macron in diretta al canale Bfm Tv: «Dieci giorni fa - erano state le parole del presidente francese - il presidente Trump aveva detto che intendevano disimpegnarsi dalla Siria . Noi l’abbiamo convinto che era necessario rimanere a lungo. E l’abbiamo anche convinto che bisognava limitare gli attacchi con armi chimiche, mentre c’era un’escalation tramite una serie di tweet che non vi saranno sfuggiti...». 

 

 

Ma Trump non ha gradito di essere ridotto al rango di “presidente che si fa convincere”. Così sono arrivate le parole taglienti della portavoce Sarah Sanders che ha aggiunto: «Gli Stati Uniti sono determinati ad annientare l’Isis e a creare le condizioni per impedire un suo ritorno. 

 

 

Insomma, la missione americana in Siria non cambia: ritiro a breve delle truppe. E in questo senso va letto anche l’appello finale di Trump agli alleati perché si assumano maggiori responsabilità, tanto sul piano militare che su quello finanziario per stabilizzare la regione. A breve nell’area non ci saranno più i duemila soldati a stelle e strisce.

 

L’ambasciatore statunitense all’Opac, Kenneth D. Ward, ha espresso invece la preoccupazione «che la Russia abbia manomesso il sito» dell’attacco e che Mosca «sia stata coinvolta» dal regime. Per la Russia è il supporto tecnico dell’Onu a non permettere agli ispettori di raggiungere l’area della Ghouta orientale, completamente riconquistata dalle truppe di Bashar al-Assad soltanto da pochi giorni. 

 

Il problema dell’accesso «è legato alla mancanza dell’approvazione della missione da parte dipartimento della sicurezza del segretariato dell’Onu» ha precisato il vice ministro degli Esteri russo Serghei Ryabkov e «la rapida risoluzione di questo problema è impedita dalle conseguenze dell’azione militare illegale» di sabato, cioè i raid di Usa, Gran Bretagna e Francia su presunte infrastrutture del programma di armamenti chimici di Damasco.



REPUBBLICA.IT
È STATO Israele ad attaccare la base T4 in Siria nella notte fra l’8 e il 9 aprile. Ad ammetterlo, un alto esponente militare del Paese che lo ha confermato al quotidiano statunitense New York Times. Secondo la fonte, il raid aereo è stato programmato dopo che, a febbraio, i militari israeliani avevano neutralizzato un drone dell’Iran, entrato dalla Siria, che sorvolava il territorio. Un episodio commentato duramente dal primo ministro Benjamin Netanyahu: "L’Iran ha effettuato questo tentativo di attacco. Ha violato la nostra sovranità facendo infiltrare un suo drone nello spazio aereo israeliano dalla Siria. La nostra politica è chiara: Israele si difenderà contro ogni aggressione ed ogni tentativo di violare la sua sovranità". Nel raid della notte fra l’8 e il 9 aprile, erano rimasti uccisi sette militari iraniani fra cui il colonnello Mehdi Dehghan, che comandava l’unità di droni della base T4, a est di Homs, nella Siria centrale. 

Intanto, da Londra Theresa May difende la legittimità dell’attacco sulla Siria dei giorni scorsi, definendo l’operazione "necessaria e  giustificata" e giusta, mentre gli Stati Uniti valutano nuove sanzioni contro Mosca,  ventilando la possibilità di adottarle nel prossimo futuro. 

Parlando al New York Times, l’alto esponente militare israeliano ha sottolineato che "è la prima volta che colpiamo obiettivi iraniani operativi, sia persone che impianti". "È stata aperta una nuova fase" ha aggiunto nell’articolo, intitolato "La vera prossima guerra in Siria: Iran contro Israele" e firmato dal giornalista Thomas Friedman. Il governo israeliano non ha confermato le parole della fonte: in un’intervista al sito Walla, registrata dopo l’uscita del quotidiano, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha affermato che "dobbiamo fare quello che dobbiamo, non permetteremo il consolidamento iraniano in Siria", sottolineando inoltre che non permetterà alla Russia di porre limiti alla sua attività per contrastare la presenza iraniana in Siria. Il ministro ha accusato Teheran, tra l’altro, di finanziare i movimenti armati Hamas e Hezbollah, "gruppi terroristici che non sarebbero in grado di operare senza finanziamenti da parte di Teheran".

Non si è fatto attendere il commento del ministero degli Esteri di Teheran. Il portavoce Bahram Qassemi, durante una conferenza stampa, ha dichiarato che "Israele prima o poi la pagherà. Non può fare un’azione del genere e pensare di restare impunito, è un’agressione illegale". Il funzionario, riporta l’agenzia di stampa Tasnim, ha aggiunto che l’attacco "ha le sue radici nelle politiche ostili di Israele nei confronti dei popoli musulmani della regione".

Le autorità israeliane hanno più volte ripetuto, negli ultimi mesi, di voler impedire in ogni modo che forze militari iraniane vengano dispiegate permanentemente a ridosso del loro confine settentrionale. "Gli americani e gli europei non sono pronti a impegnarsi e il peso di contenere l’Iran ricade sulle nostre spalle" ha spiegato all’agenzia di stampa Dpa Yaakov Amidror, l’ex capo del Consiglio nazionale di sicurezza di Tel Aviv. L’uomo ha sottolineato che, secondo il governo di Israele, l’Iran sta aumentando la presenza militare in Siria per sfidare il suo Stato e non per contenere le forze dei ribelli. "Non possiamo permettere una cosa del genere. E se non ci sarà un passo indietro, questo porterà alla guerra" ha concluso.

Sulle responsabilità dell’attaccco alla base, che sorgeva in una posizione strategica e dove spesso si rifornivano gli aerei russi, si era molto discusso negli ultimi giorni. I principali sospettati erano gli Stati Uniti, nonostante il Pentagono, fin da subito, avesse escluso il proprio coinvolgimento. Mosca, al contrario, aveva accusato già poche ore dopo l’attacco, l’esercito israeliano.

• May: "In Siria attacco legittimo e proporzionato". E gli Usa valutano nuove sanzioni contro Mosca
 

Definendo legittimo, morale e legale il raid in Siria di sabato scorso, la premier britannica ha rivendicato la responsabilità di aver agito senza attendere l’indagine Opac e senza far votare il Parlamento anche per la natura "limitata" dell’intervento, estraneo all’obiettivo di "cambiare il regime". Londra ha agito perché era la cosa giusta da fare, ha aggiunto May, e "non perché ce l’ha chiesto Donald Trump". La premier britannica ha anche denunciato che il regime siriano e la Russia impediscono agli ispettori dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche di arrivare a Douma.

Anche Parigi conferma che le informazioni raccolte dalla Francia e dagli alleati attestano l’attacco chimico in Siria: lo ha ripetuto oggi il premier Edouard Philippe davanti all’Assemblea Nazionale di Parigi durante il dibattito sulle operazioni congiunte contro il regime di Bashar al-Assad lanciate da Francia, Usa e Gran Bretagna.

E mentre Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europeo, chiede maggiore unità a livello europeo, aggiungendo che "andare in ordine sparso sarebbe un grave errore", gli Stati Uniti stanno valutando ulteriori sanzioni contro la Russia. Una decisione verrà presa a breve, ha comunicato la portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders.

DE MAGISTRIS
Il sindaco di Napoli Luigi de Magistris ha inviato la scorsa settimana al Contrammiraglio Arturo Faraone - comandante della capitaneria di porto di Napoli - una nota relativa alla presenza in rada, nelle scorse settimane di un sottomarino nucleare statunitense.

"Ho appreso - scrive il primo cittadino - che lo scorso 20 marzo il sottomarino nucleare statunitense Uss John Warner è approdato nella rada della nostra città. Ho letto anche l’ordinanza n.17/2018 che Lei ha emesso per le necessarie e correlate disposizioni di sicurezza e di navigazione. Desidero, a tal proposito, ribadire che il 23 settembre 2015 è stata approvata, su mia iniziativa, la delibera n.609 con la quale è stata dichiarata "area denuclearizzata" il porto di Napoli. L’atto - prosegue il sindaco - pone in evidenza la volontà di interdire l’attracco e la sosta, di qualsiasi natante a propulsione nucleare o che contenga armamenti nucleari. Non solo, ma esprime e riafferma il ruolo di Napoli "Città di Pace", rispettosa dei diritti fondamentali di ciascuno, convinta del disarmo e della cooperazione internazionale."

La nota del sindaco de Magistris si chiude con la richiesta all’ammiraglio Faraone "di considerare, per analoghe situazioni future che la determinazione e la volontà menzionate nella delibera 609 sono dirette al non gradimento che navi di tale caratteristiche sostino o transitino nelle acque della nostra città".

Il sottomarino nucleare statunitense Uss John Warner, di cui il sindaco di Napoli Luigi de Magistris ha lamentato la presenza in rada lo scorso 20 marzo, risulta essere uno degli assetti americani che ha partecipato all’attacco missilistico in Siria.

Il canale YouTube Aiir Source military, che raccoglie filmati relativi alle attività delle forze armate statunitensi, ha infatti pubblicato un video che risalirebbe a sabato, il giorno dell’attacco, e che mostra il lancio di un missile Tomahawk da un sottomarino indicato appunto come il John Warner (SSN 765) dislocato nel Mar Mediterraneo.

La presenza del sottomarino a Napoli, in rada, risale al 20 marzo, quindi settimane prima del sospetto attacco chimico a Duma, che è del 7 aprile. Il sottomarino non è mai entrato nel porto di Napoli, nè vi potrebbe entrare - viene riconosciuto - proprio per le sue caratteristiche di unità nucleare nonostante il capoluogo campano sia la sede della VI Flotta della Marina statunitense.



Il sottomarino nucleare che a marzo era a Napoli, sempre da canali YouTube specializzati in questioni militari, risulta essere salpato dal porto di Gibilterra il 5 aprile. Il Pentagono, sottolineano le stesse fonti, ha confermato la partecipazione all’attacco in Siria del John Warner che avrebbe lanciato in tutto sei missili Tomahawk.

"Le decisioni in ordine all’arrivo e/o al transito delle unità navali militari straniere nelle acque territoriali nazionali non competono all’Autorità Marittima, quale organo periferico del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti". Lo sottolinea il contrammiraglio Arturo Faraone, comandante della Capitaneria di Porto di Napoli, rispondendo al sindaco Luigi de Magistris circa la presenza nella rada del porto di Napoli del sottomarino nucleare Usa John Warner.

LE PROTESTE CONTRO l’ATTACCO Firenze | Genova

La stessa amministrazione Usa ha diffuso foto e video del lancio di missili da bordo del sottomarino. Il John Warner - soprannominato "Sledgehammer of Freedom" dall’equipaggio - è essenzialmente un sottomarino d’attacco che può essere utilizzato per diverse missioni, tra cui sorveglianza, ricognizione, ricerca e soccorso, così come il lancio di missili, siluri e mine.

Il sommergibile Usa risulta aver partecipato, tra il 2 e il 16 marzo, all’esercitazione della Nato Dynamic Manta 2018 (DYMA 18) una delle più importanti e complesse attività addestrative dell’Alleanza Atlantica che si svolge al largo delle coste siciliane.

Vi hanno partecipato navi, sottomarini, aerei e militari di dieci nazioni alleate che si sono addestrati alla lotta anti sommergibile e alla lotta contro i mezzi di superficie. Insieme al John Warner c’erano anche sommergibili provenienti da Canada, Grecia, Italia, Spagna e Turchia, sotto il controllo del Comando sommergibili della Nato. Inoltre nove navi di diversi Paesi, insieme a aerei e elicotteri.

FIRENZE
Manifestazione contro la guerra, venerdì pomeriggio a Firenze, in occasione di un incontro con l’ad di Leonardo/Finmeccanica, Alessandro Profumo, organizzato dalla Cassa di Risparmio. Una cinquantina di persone, tra esponenti di comitati e centri sociali, hanno sfilato pacificamente in corteo da via Bufalini, dove si trova la sede della Cassa di Risparmio, alla Camera di Commercio, in piazza dei Giudici, dove è stato ospitato l’incontro con Profumo, scandendo slogan contro la guerra e in favore delle resistenza curda in Siria.

"Leonardo spa. Finmeccanica Profumo di Guerra" la scritta vergata sullo striscione esposto dai manifestanti davanti alla sede della Camera di Commercio, protetta dalla polizia in assetto antisommossa. Il presidio, spiegano gli organizzatori (tra i quali Cpa Firenze Sud, Cantiere Sociale Camilo Cienfuegos di Campi Bisenzio, Collettivo Politico Scienze Politiche, PerUnaltracittà Firenze, Comitato Fiorentino Fermiamo la Guerra - Potere al Popolo Firenze; Rete Dei Collettivi Fiorentini), ha l’obiettivo di "contestare l’export di armi di Leonardo/Finmeccanica (ex Galileo Firenze) verso Paesi coinvolti nel massacro kurdo-palestinese in corso in queste settimane in Siria e Israele"

GENOVA
I pacifisti genovesi che da anni ogni giorno si danno appuntamento in piazza De Ferrari alle 18, oggi, legano al loro presenza ai nuovi venti di guerra in arrivo dalla Siria. "Attacco USA contro la Siria - scrivono in un comunicato - Ancora una volta gli USA “esportano la democrazia”: come in Afghanistan (il pretesto quella volta fu la caccia a Bin Laden, successivamente trovato e linciato in Pakistan); come in Iraq ( pretesto: le armi di distruzione di massa attribuite a Saddam Hussein ed in realtà inesistenti); come in tutte le altre occasioni, lontane o recenti, in cui gli USA hanno deciso di ricordare al mondo di volerne essere i padroni. Con o senza un governo, l’Italia è già direttamente coinvolta in questo conflitto: in questi giorni aerei da ricognizione sono già partiti da Sigonella, Sicilia; da decenni ampie porzioni di territorio italiano sono basi USA (e stoccano ordigni atomici).
E’ necessario dimostrare che esiste ancora l’opposizione alla guerra, all’uso della forza e all’ “ordine” internazionale che governa miseria, disuguaglianza e sfruttamento. Per una risposta immediata a Genova, appuntamento oggi alle 18 in piazza De Ferrari: per dire no alla guerra senza se e senza ma e per coordinare iniziative future.
Pacifisti e pacifiste dell’ora in silenzio per la pace".

STRADA
"L’Onu ormai fa solo raccomandazioni, come la mamma al bambino che va a scuola. Doveva impedire ulteriori guerre, invece è un fallimento epocale". A dirlo è il fondatore di Emergency Gino Strada, intervistato da Jean Paul Bellotto e Massimo Giannini durante la trasmissione "Circo Massimo" su Radio Capital. "Il popolo pacifista non si sta mobilitando - ha aggiunto Strada - perché ormai è subentrata la frustazione, un senso di impotenza, dato che la politica va in un’altra direzione. Si dice che la guerra è brutta finché la fanno gli altri, poi quando la fanno gli amici... Spesso a dirsi pacifista è chi poi i conflitti li fa e li sostiene". In merito alla posizione del leader della Lega Matteo Salvini, che aveva definito il raid in Siria un errore, Strada ha commentato: "Sono contento di vedere che anche lui dica qualcosa di intelligente. Molto meglio questa posizione contro la guerra che quelle contro i migranti".

GIGI RIVA
Papa Francesco lancia un appello, l’ennesimo, a "tutti i responsabili politici" perché in Siria prevalgano "la giustizia e la pace". Invita "le persone di buona volontà" a pregare. Lo faranno di certo, ciascuno nel dialogo intimo con il divino. Però non sono più un movimento, non sono più massa critica. Da tempo ormai sono vistosamente scomparse dallo spazio pubblico le bandiere arcobaleno, le piazze sono orfane di chi sfilava contro la guerra con lo slogan assoluto "senza se e senza ma". Anche nell’ultimo caso Mediorientale, come in molti recenti, i se e i ma invece abbondano. Stare contro Donald Trump e implicitamente difendere il dittatore Assad accusato di usare i gas? Stare contro Assad e favorire quella frangia di ribelli attestata su posizioni jihadiste? E chi davvero ha usato le armi chimiche?

Gli interrogativi, tutti legittimi, sono peraltro la foglia di fico di un impegno cessato molto prima. Il pacifismo era già moribondo, soffocato dalla propria impotenza a causa di una serie di sconfitte storiche che hanno provocato frustrazione e disincanto. Nella sua versione più intransigente rifiutava qualunque tipo di intervento, compreso quello auspicato da un altro Papa, Giovanni Paolo II, quando si batteva (era il 1992) per il diritto-dovere di ingerenza umanitaria in Bosnia. Tre anni dopo, il bombardamento durato pochi giorni delle postazioni serbe nei dintorni di Sarajevo provocò la fine del conflitto e l’inizio di un ripensamento tra chi circondava le base di Aviano per cercare di impedire il decollo degli aerei americani. La prova più evidente che non esiste una formula adatta a tutte le circostanze. E in occasioni fatali come le guerre è sempre il caso di rimboccarsi le maniche e valutare con pazienza se un intervento è destinato ad alzare o abbassare il livello di violenza. Nei Balcani, lo abbassò.

Al contrario, otto anni dopo, dell’invasione dell’Iraq da parte di George Bush il figlio, la cui eredità sono i conflitti ancora aperti. Per fermare quello sciagurato tentativo di "esportare la democrazia" scesero per strada, nel mondo, cento milioni di persone (un milione in Italia). Non servì a nulla: il pacifismo toccò l’apice dell’espansione e l’inizio della disillusione. Si è protestato, dal Vietnam in poi, per le guerre degli altri. Testimonianze, opposizioni di principio astratte come la lontananza. Dopo le Torri Gemelle, l’Iraq e il conseguente terrorismo globale, è risultato sempre più complicato essere pacifisti, a causa della sensazione di avere la guerra in casa. La neutralità è diventata un lusso. Vincono le posizioni nette. Col nemico alle porte, il pacifismo è finito in fuorigioco.

Un peccato davvero, persino per chi lo osteggiava. Perché è proprio la sua mancanza, oggi, che impedisce lo sviluppo della dialettica attorno a un tema così cruciale. Le baruffe, anche furibonde, degli anni ’90 e degli anni ’10 di questo secolo tra interventisti e non avevano il valore prezioso di instillare il dubbio, nei campi contrapposti. Il cittadino-elettore aveva la sensazione di poter incidere sul processo politico più drammatico, la scelta tra la pace e la guerra. Oggi il campo è sgombro. Trump, come un dottor Stranamore, "punisce" la Siria, sgancia la superbomba in Afghanistan, minaccia la Corea del Nord, senza che si veda all’orizzonte un corteo. Senza che ci sia un contrappeso al suo bellicismo incontinente. Se era deleterio un eccesso di pacifismo, è ugualmente nefasta la sua totale assenza.

DE MAGISTRIS DEL CORRIERE
Napoli rimbalza sullo scenario della politica internazionale e la presenza, nel suo porto, di un sottomarino nucleare statunitense, fa sfiorare un serio incidente diplomatico. Il sindaco Luigi de Magistris, «appreso che lo scorso 20 marzo il sottomarino nucleare statunitense Uss John Warner è approdato nella rada della nostra Città», nei giorni scorsi ha scritto al contrammiraglio Arturo Faraone, comandante della Capitaneria di Porto, per chiedere che «non accada più», perché Napoli è una «città denuclearizzata». Una missiva che, ha spiegato il primo cittadino, è stata scritta molto tempo prima che il sommergibile prendesse parte attiva all’attacco contro la Siria e che «Il fatto che si tratti dello stesso sottomarino - aggiunge il sindaco - rafforza ancora di più la giustezza della nostra delibera con cui abbiamo sancito che nel Porto di Napoli non sono gradite, e pertanto non andrebbero consentiti il transito e la sosta, di navi a propulsione nucleare o che portano armi nucleari. Il nostro è un atto con valenza istituzionale e politica e spetta ad altre autorità tradurre in atti efficaci la volontà politica e istituzionale manifestata dalla città».

Usato per l’attacco in Siria

Il mezzo sarebbe uno degli assetti americani che ha partecipato all’attacco missilistico in Siria. Il canale You tube Aiir Source military, che raccoglie filmati relativi alle attività delle forze armate statunitensi, ha infatti pubblicato un video che risalirebbe a sabato, il giorno dell’attacco, e che mostra il lancio di un missile Tomahawk da un sottomarino indicato appunto come il John Warner (SSN 765) dislocato nel Mar Mediterraneo. La presenza del sottomarino a Napoli, in rada, risale al 20 marzo, quindi settimane prima del sospetto attacco chimico a Duma, che è del 7 aprile.

In Sicilia per esercitazione

Il sottomarino nucleare, sempre da canali YouTube specializzati in questioni militari, risulta essere salpato dal porto di Gibilterra il 5 aprile. Il Pentagono, sottolineano le stesse fonti, ha confermato la partecipazione all’attacco in Siria del John Warner che avrebbe lanciato in tutto sei missili Tomahawk. La stessa amministrazione Usa ha diffuso foto e video del lancio di missili da bordo del sottomarino. Il John Warner - soprannominato «Sledgehammer of Freedom» dall’equipaggio - è essenzialmente un sottomarino d’attacco che può essere utilizzato per diverse missioni, tra cui sorveglianza, ricognizione, ricerca e soccorso, così come il lancio di missili, siluri e mine. Il sommergibile Usa risulta aver partecipato, tra il 2 e il 16 marzo, all’esercitazione della Nato Dynamic Manta 2018 (DYMA 18) una delle più importanti e complesse attività addestrative dell’Alleanza Atlantica che si svolge al largo delle coste siciliane. Vi hanno partecipato navi, sottomarini, aerei e militari di dieci nazioni alleate che si sono addestrati alla lotta anti sommergibile e alla lotta contro i mezzi di superficie. Insieme al John Warner c’erano anche sommergibili provenienti da Canada, Grecia, Italia, Spagna e Turchia, sotto il controllo del Comando Sommergibili della Nato. Inoltre nove navi di diversi Paesi, insieme a aerei e elicotteri.

Il sindaco: «Napoli è città di pace»

Il sindaco di Napoli, nello scrivere al comandante della Capitaneria di porto, specifica di aver «letto anche l’ordinanza n.17/2018 che Lei ha emesso per le necessarie e correlate disposizioni di sicurezza e di navigazione», e che a tal proposito desidera «ribadire che il 23 settembre 2015 è stata approvata, su mia iniziativa, la delibera n.609 con la quale è stata dichiarata “area denuclearizzata” il Porto di Napoli». «L’atto», prosegue il sindaco, «pone in evidenza la volontà di interdire l’attracco e la sosta, di qualsiasi natante a propulsione nucleare o che contenga armamenti nucleari. Non solo, ma esprime e riafferma il ruolo di Napoli “Città di Pace”, rispettosa dei diritti fondamentali di ciascuno, convinta del disarmo e della cooperazione internazionale». La nota del sindaco si chiude con la richiesta all’ammiraglio Faraone «di considerare, per analoghe situazioni future che la determinazione e la volontà menzionate nella delibera 609 sono dirette al non gradimento che navi di tale caratteristiche sostino o transitino nelle acque della nostra Città».

La risposta del contrammiraglio Arturo Faraone

La riposta alla lettera del sindaco de Magistris non si è fatta attendere. Con una nota, infatti, il contrammiraglio (CP) Arturo Faraone, comandante della capitaneria di porto di Napoli ha spiegato come sono andate le cose. «In merito a quanto rappresentato con la Sua missiva in data odierna, diffusa agli organi di stampa nazionali e inerente l’arrivo nella rada di Napoli dell’Uss John Warner, nel considerare condivisibili le Sue preoccupazioni come primo cittadino che hanno prodotto l’emanazione della Delibera di Giunta n°609 del 23 settembre 2015, desidero innanzitutto rassicurarLa che all’attualità non è consentito l’ingresso in Porto ad unità a propulsione nucleare né tantomeno a navi con carico radioattivo», scrive Faraone che aggiunge: «Ritengo opportuno precisare che questa Autorità Marittima, con l’Ordinanza n°17/2018 del 16/03/2018, a seguito della comunicazione da parte dello Stato Maggiore della Marina Militare dell’arrivo in rada dell’Uss John Warner, non ha autorizzato ma ha esclusivamente disciplinato, per quanto di propria competenza, come previsto dal piano predisposto dagli organi del ministero della Difesa, le attività relative alla navigazione marittima connesse alla sosta del predetto sommergibile ai fini della sicurezza della navigazione per la salvaguardia della vita umana in mare. Infatti, le decisioni in ordine all’arrivo e/o al transito delle unità navali militari straniere nelle acque territoriali nazionali non competono all’Autorità Marittima, quale organo periferico del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti».

DALLA STAMPA DI STAMATTINA

PAOLO MASTROLILLI

L’invito della Francia alla Russia per tornare al tavolo delle trattative diplomatiche sulla Siria fa parte di una strategia concordata tra Parigi, Washington e Londra. Lo scopo è andare oltre il raid di sabato notte, usandolo per cercare di rilanciare il processo negoziale guidato dall’Onu a Ginevra. La chiave però sta nella disponibilità a partecipare di Mosca e Damasco, che in sostanza si sono ritirate dalle trattative nel febbraio scorso. Può darsi che sia una manovra pensata solo per mitigare le critiche all’attacco congiunto, ma la proposta è sul tavolo, e se fosse accettata potrebbe riaprire il dialogo.

L’apertura è stata fatta ufficialmente dal ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian, che in un’intervista al «Journal du Dimanche» ha invitato la Russia ad «unire gli sforzi per promuovere un processo politico in Siria che consenta l’uscita dalla crisi». Questa offerta fa seguito agli interventi tenuti sabato nella riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu dai rappresentanti di Washington, Londra e Parigi. Per prima ha parlato l’ambasciatrice americana Haley, che ha difeso l’attacco, ma ha anche riaperto la porta al negoziato politico. Poi è intervenuta la rappresentante britannica, Karen Pierce, che ha elencato le condizioni per ricominciare le trattative: «Primo, il programma delle armi chimiche siriane deve finire e i depositi vanno distrutti una volta per tutte; secondo, deve esserci una cessazione immediata delle ostilità, nel rispetto di tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, incluse quelle che richiedono l’accesso degli aiuti umanitari; terzo, il regime deve tornare ai colloqui di Ginevra, e accettare di impegnarsi nella sostanziale agenda promossa dell’inviato speciale dell’Onu Staffan de Mistura; quarto, serve appurare le responsabilità per l’uso delle armi chimiche e altri crimini di guerra in Siria». Quindi Pierce, secondo una regia chiaramente concordata, ha passato la parola al collega francese Delattre, incaricato di fornire i dettagli, identici. Poco dopo la Casa Bianca ha tenuto un briefing riservato con i giornalisti, in cui un autorevole membro dell’amministrazione Trump ha spiegato così la posizione di Washington: «Noi siamo sempre stati, e restiamo fortemente a favore del processo di Ginevra, basato sulla risoluzione 2254. I focus devono essere due: la riforma costituzionale, e le elezioni libere e giuste. Il processo è stato bloccato a febbraio, perchè la Siria ha deciso di non partecipare, e la Russia non l’ha spinta a farlo. Questo è curioso, perché alla fine della riunione tenuta a Sochi in febbraio, il ministro degli Esteri Lavrov aveva detto di appoggiare il processo di Ginevra. Ma la trattativa è impossibile, se Damasco e Mosca la rifiutano».
Intanto Washington prepara nuove sanzioni contro Mosca per il sostegno del governo russo al dittatore siriano Bashar Assad. Ma nel frattempo Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno presentato una nuova risoluzione per riprendere i colloqui e completare il disarmo chimico di Assad.
Il processo di Ginevra è il negoziato basato sulla risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza, che l’inviato speciale dell’Onu Staffan de Mistura ha suddiviso in «four baskets», quattro comparti: «Un governo di transizione credibile e non settario; una costituzione futura; elezioni parlamentari libere entro 18 mesi; guerra unitaria contro il terrorismo». Questi sono principi su cui aveva concordato anche la Russia, ma poi tutto si è bloccato, forse perché Damasco e i suoi alleati vogliono prima vincere la guerra sul piano militare. I raid di sabato hanno dimostrato che Usa, Gran Bretagna e Francia non sono disposti a cedere. La proposta di rilanciare il processo di Ginevra può essere solo una manovra di pubbliche relazioni, necessaria per rispondere alle critiche sul raid di sabato e dargli una direzione strategica. Però è sul tavolo, e se Mosca l’accettasse potrebbe riaprire la porta ad una soluzione condivisa del conflitto.

Macron apre la mediazione con Putin
“E ho convinto Trump a tenere le truppe”

Leonardo Martinelli

Per Emmanuel Macron, sulla crisi in Medio Oriente, «il ruolo della Francia è continuare a parlare con tutti e, se necessario, essere in disaccordo con gli Stati Uniti, come lo siamo sull’intesa nucleare con l’Iran».
Sì, continuare a dialogare «anche con gli iraniani, i turchi e i russi. Con Vladimir Putin parlo costantemente da quando sono in carica».
Ieri sera, in diretta sul canale «Bfmtv», il presidente francese si è spiegato su una serie di dossier scottanti, bersagliato dalle domande di due giornalisti particolarmente incalzanti come Jean-Jacques Bourdon ed Edwy Plenel.
A due giorni dall’attacco realizzato in maniera congiunta da francesi, americani e inglesi alle basi di produzione di armi chimiche del regime di Bashar al-Assad, la Siria si è ritrovata al centro del dibattito.
Macron vuole imporsi come ago della bilancia in quella crisi. E ha sottolineato le differenze con gli Usa, un alleato ingombrante, soprattutto sotto la gestione di Donald Trump. «Una decina di giorni fa il presidente americano diceva che il suo Paese aveva vocazione a disimpegnarsi in Siria. Sono riuscito a convincerlo a restarci e nel tempo. Ma l’ho anche convinto a limitare i nostri attacchi alle armi chimiche, mentre con i suoi tweet la situazione stava degenerando». Macron ha pure sottolineato di non condividere la volontà di Trump a uscire dall’accordo sul nucleare raggiunto con l’Iran. Poi, pur ammettendo le discordanze con Mosca («la Russia è complice di Assad sulle armi chimiche»), ha insistito sulla necessità a continuare il dialogo con Putin. Proprio venerdì, qualche ora prima degli attacchi aerei, che si sono svolti la notte successiva, aveva parlato al telefono con il presidente russo, anche se lui, ha ammesso Macron, «ha continuato a negare il ricorso alle armi chimiche». Come segno di distensione, il presidente francese ha confermato che sarà il 24 e il 25 maggio al Forum economico internazionale di San Pietrioburgo, dove Putin l’ha invitato come ospite d’onore. «Non c’è nessun cambiamento di programma», ha dichiarato Macron.
Ha poi insistito sul fatto che «siamo intervenuti nel rispetto del diritto internazionale, ma non abbiamo dichiarato guerra ad Assad. E questa è la grande differenza rispetto a quanto avvenne in Libia e prima ancora in Iraq». E «con i nostri attacchi aerei siamo riusciti a dividere i russi e i turchi, perché questi ultimi si sono detti favorevoli alla nostra operazione».

La vendetta di Assad: bombe sui ribelli
E Teheran muove le milizie sciite
dall’Iraq e dal Libano per colpire gli Usa
Oltre 20 mila combattenti pronti ad attaccare. Hezbollah verso il confine israeliano

Giordano Stabile

Bashar al-Assad annuncia che i raid occidentali «hanno unito la Siria», torna a bombardare i ribelli, mentre il fronte sciita prepara la risposta. Centinaia di combattenti sciiti si sono spostati negli ultimi due giorni dall’Iraq alla Siria, diretti a Deir ez-Zour e di lì al fronte a Est dell’Eufrate, dove l’esercito di Bashar al-Assad e i suoi alleati sono a pochi chilometri dalle posizioni della coalizione curdo-araba sostenuta dagli Stati Uniti. Dopo «l’incidente» dell’8 febbraio, quando miliziani filo-governativi tentarono un blitz per riprendersi un campo petrolifero e almeno un centinaio, compresi molti contractors russi, vennero uccisi da raid americani, il fronte è «congelato». Il blitz di sabato ha cambiato le cose. Le milizie sciite sono «in stato di combattimento». L’ordine è di colpire, anche se non con attacchi frontali.
A spostarsi dall’Iraq sono stati i combattenti di Harakat Hezbollah al-Nujaba. È una milizia che risponde a Qassem Suleimani, il comandante delle forze d’élite dei pasdaran. Ha partecipato alla battaglia di Aleppo nel 2016 e poi alla riconquista dell’Est siriano. Ma soprattutto è stata decisiva nella presa di Abu Kamal, al confine fra Siria e Iraq, il tassello indispensabile per aprire «l’autostrada sciita» da Baghdad a Beirut. Hezbollah al-Nujaba, come il suo omonimo libanese, è anche un partito e spera di diventare decisivo per la formazione del governo dopo le elezioni del 12 maggio. Per questo il premier Haider al-Abadi, nonostante le pressioni americane, lascia fare. I miliziani iracheni ricevono un salario dal governo: Sheikh Maythan al-Zayadi, a capo di una milizia più moderata che risponde al Grande ayatollah Ali Sistani, ha rivelato che la paga è doppia per chi combatte a fianco di Assad: 1200 dollari invece di 600.
I combattenti sciiti, oltre a fronteggiare gli americani nella Siria orientale, si sono avvicinati sempre più a Israele. Secondo l’esercito israeliano ci sono in Siria 9000 combattenti dell’Hezbollah libanese, altrettanti iracheni, più alcune migliaia di afghani, coordinati da 2000 consiglieri militari dei pasdaran. Dopo aver sconfitto l’Isis in Iraq e Siria, per le milizie irachene ora il nemico numero uno sono le truppe americane: 2000 in Siria e 6000 in Iraq, più 5500 contractors. I miliziani sciiti iracheni sono invece 200 mila, e almeno la metà sono controllati dall’Iran. È una massa d’urto che potrebbe mettere in difficoltà gli Stati Uniti. Per questo in Israele è allarme rosso e il premier Benjamin Netanyahu ha invitato Donald Trump a «non ritirarsi dalla Siria». Ieri l’ambasciatrice all’Onu Nikki Haley ha precisato che il ritiro avverrà «soltanto quando gli obiettivi verranno raggiunti». E fra gli obiettivi c’è il contenimento dell’Iran. Lo Stato ebraico conduce con l’Iran una guerra aerea «a bassa intensità» dal 10 febbraio, quando un drone spia è stato intercettato sul Golan. Ieri l’ex capo del Mossad Danny Yatom ha rivelato che era «una replica esatta» di un Sentinel americano precipitato in Iran nel 2011. Altri modelli sono in grado di lanciare «missili guidati».
Con l’appoggio militare russo e iraniano il presidente siriano Assad può ostentare sicurezza prendersi la sua rivincita sui ribelli alleati di Usa e Arabia Saudita. L’aviazione siriana ha ripreso i raid a Sud di Idlib, e a essere colpito è stato il gruppo Jasyh al-Islam che aveva resistito a Douma fino all’attacco chimico. Ieri il raiss ha incontrato parlamentari russi e puntualizzato che «l’attacco ha unito il nostro popolo e tutte le nazioni guidate dalle norme del diritto internazionale». Assad ha sottolineato che la Siria si è difesa dai raid «con missili prodotti negli anni Settanta», e Mosca lo ha rassicurato ancor più con l’annuncio di una prossima fornitura di più avanzati sistemi S-300. Ma il raiss gioca anche la carta dell’orgoglio arabo. Dalla riunione della Lega araba è arrivata la solidarietà di Libano, Iraq, Algeria, mentre Kuwait e Giordania hanno chiesto «una soluzione politica». Le posizioni anti-America servono a guadagnare consensi fra i sunniti. Lo scorso gennaio Assad ha riallacciato le alleanze strette dal padre Hazef con le tribù beduine Shaitat, Baggara, Sabkha. Anche loro potrebbero partecipare alla guerriglia anti-Usa.