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 2018  aprile 16 Lunedì calendario

Amazon, dipendenti depressi e con istinti suicidi

Un altro tassello al puzzle delle denunce contro il colosso mondiale delle vendite on line. Amazon di nuovo sotto accusa, stavolta dopo un sondaggio della britannica Organise, realizzato su cento dipendenti del deposito di Rugeley, nello Staffordshire, nord dell’Inghilterra. L’organizzazione, che si batte per migliori condizioni sul posto di lavoro, ha svelato come la metà dei cento intervistati (su un totale di 1.200 persone impiegate nel magazzino da 65mila metri quadrati), ha ammesso di soffrire di depressione da quando ha cominciato a lavorare per l’azienda di Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo. Otto di loro hanno anche confessato di avere tentazioni suicide. E i tre quarti hanno ammesso di evitare di bere, fino ad assetarsi, per limitare le visite al bagno e mancare gli obiettivi sulla produttività.
È un quadro desolante, quasi da un incubo, che fa il paio con le rivelazioni di James Bloodworth, autore di Hired, il libro-denuncia pubblicato il 18 marzo, in cui il giornalista racconta la sua esperienza di sei mesi, in incognito, nel variegato mondo inglese della gig economy, quella dei lavori saltuari e senza contratto. Bloodworth ha trascorso un mese nel mega-deposito di Rugeley e svelato cosa accade ai lavoratori, continuamente monitorati dai supervisori per garantire che l’efficienza sia al massimo e le perdite di tempo al minimo. Così anche andare in bagno diventa un’impresa. Le toilette «possono essere anche a dieci minuti e quattro piani di distanza dal posto in cui si lavora». E infatti – ha svelato Bloodworth – «la gente faceva pipì nelle bottiglie per paura di perdere il lavoro o essere punito». Nel timore di furti, i dipendenti vengono continuamente controllati, con un sistema di sicurezza e scanner che ricorda quello degli aeroporti. E rischiano anche la perquisizione dell’automobile in caso di sospetti. Vietati, poi, telefoni cellulari, occhiali da sole e cappucci. Qualcuno ha anche raccontato: «Ho avuto un episodio di epilessia al lavoro e mi hanno portato in ospedale. L’indomani ho ricevuto una chiamata in cui si chiedeva perché non mi fossi presentato al lavoro».
Amazon rigetta le accuse e si dice persino scettico sulla circostanza che le persone intervistate abbiano realmente lavorato per l’azienda. «Ci impegniamo per garantire un ottimo ambiente per tutti i nostri dipendenti e il mese scorso LinedkIn ci ha indicato come il settimo posto più ricercato nel Regno Unito e il primo negli Usa».
Questione di punti di vista. Come denuncia ancora Bloodworth nel suo libro, secondo cui Amazon ricorda un po’ la vecchia Unione Sovietica. Mentre i dipendenti fanno fatica ad andare in bagno, nei corridoi dei depositi l’azienda esibisce cartelli motivazionali del tipo: «Ci piace venire al lavoro e ci manca quando non siamo lì». I manager dicono: non chiamarlo «deposito» ma «centro di realizzazione». I capi sono «soci» e lì non si viene «licenziati» ma «rilasciati». Come in prigione.