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 2018  aprile 15 Domenica calendario

Intervista a Aurelio Picca

È lo scrittore più apprensivo che conosca. Un pomeriggio con Aurelio Picca produce flussi di incontenibile ansia. Senza capire bene se sia la sua a generare la mia o viceversa. In macchina, mentre ci dirigiamo verso la sua casa di Velletri, parla in continuazione. Ascolto, senza capire bene se quel fiume di parole voglia essere un muro alla comunicazione o favorirla. Sospetto stia scaldando i motori. E che presto, colui che considero tra i migliori scrittori in circolazione, si disporrà nel tenue ordine del ricordo. Del resto, tutti i suoi romanzi sono all’insegna di una memoria molto privata che si apre quasi sempre alla cronaca nera. Anche quest’ultimo: Arsenale di Roma distrutta (edito da Einaudi) è un romanzo che ha al centro Picca ma nella cornice dell’Italia criminale degli anni Settanta e in parte Ottanta. Lui non è cambiato dall’ultima volta che l’ho visto.
L’aspetto è solo lievemente più massiccio. Come massicce sono le scarpe nere, l’orologio, l’anello con un’enorme perla incastonata, probabilmente finta. Veste con il gusto attillato degli anni Sessanta. Ricorda certe immagini di boys alla brillantina. Gli occhi neri, lievemente sporgenti, le basette lunghe e vagamente foscoliane (Foscolo è un poeta che ama), richiamano la figura di Curzio Malaparte. Gli dico che c’è una certa somiglianza. Mi risponde che è uno dei suoi scrittori preferiti: «Pensa, mi sono aggiunto tre anni pur di poter dire di esser nato quando Malaparte morì, nel 1957».
Credi nella coincidenza delle date?
«La coincidenza in realtà non c’era. Ma ho voluto segretamente rendere omaggio a uno scrittore che era tutto: elegante e bugiardo, magico e grottesco. Un seduttore di anime e di donne. Inafferrabile e contraddittorio, per questo poco amato. Eccessivo, muscolare. Dovunque lo collochi stride. E poi, nessuno ha indagato meglio i bassifondi psicologici del popolo italiano».
Anche tu non scherzi quanto a bassifondi.
«A cosa pensi?».
Ai decenni che i tuoi romanzi raccontano, all’epica delle periferie oltraggiate, all’innocenza perduta, ai personaggi sempre ai margini e mai al centro. Perfino il lavoro che fai sulla tua infanzia e giovinezza sembra vomitato da qualche bassofondo.
«Ah, se è per questo ho avuto tre infanzie».
Sei eccessivo, come al solito.
«La prima finì con la morte di mio padre. Aveva 28 anni e io 21 mesi. Fui deposto nella casa di mio nonno, uomo bigamo e repubblicano. Ardente mazziniano, teneva in casa la moglie e la domestica, verso la quale riversava attenzioni molto spinte. La seconda infanzia finì quando mia madre si risposò, un paio d’anni dopo, con un comunista di ferro. Tornammo a vivere insieme. Mio nonno, un selvaggio con l’etica del lavoro e il mito di Pacciardi, considerò quel matrimonio un tradimento alla memoria del figlio. Ebbe così inizio la terza infanzia. Ce ne sarebbe una quarta. Ma non ti voglio annoiare».
Mi incuriosisce, sembra il manuale dell’eterno fanciullo.
«Avevo 50 anni, avvertii improvvisamente di essere tornato bambino: le fragilità, le crisi di panico, il disorientamento. Tutto quello che era stato riposto in qualche parte segreta di me riesplose». Con quali effetti?
«Pesanti, all’inizio. Cercai aiuto nella psicoanalisi, ma non servì. Alla fine ero io che interrogavo l’analista. Una donna piuttosto bella. Volevo sapere tutto della sua vita privata. Mi cacciò, sospettando che andassi lì per la sua anima e non per la mia. La crisi durò un po’ meno di un anno. La vita di prima ebbe il sopravvento. Era stata solo una tempesta passeggera. Ripresi a scrivere».
Quando hai cominciato a scrivere davvero?
«L’impulso è venuto dopo la morte di mio nonno. Avevo 19 anni. Col tempo mi ero affezionato alla sua figura. Eppure quando morì pensai: meno male che se ne è andato. Ai miei occhi rappresentava la legge. Mi sentii libero di fare qualunque cosa. Una libertà feroce e nevrotica. Mi spaventai al pensiero di non darmi limiti. Cominciai a leggere Foscolo. Di solito a quella età ci si imbatte in Leopardi. Ma ero colpito dall’arditezza di Foscolo, dalle donne che aveva amato, dal potere che aveva cercato di combattere in ogni sua forma. Mi piaceva l’assenza del compromesso. E ho pensato che, se avessi avuto bisogno di una nuova legge, l’avrei dovuta cercare nella letteratura».
Perché proprio lì?
«Perché era la sola autorità che mi consentiva di conservare una certa libertà. Negli anni in cui la mia generazione si identificava con la politica e con l’eroina io ero il navigatore solitario. La letteratura italiana di quel periodo aveva le pezze al culo. C’era solo Tondelli e poco altro. Fu allora che lanciai la mia sfida attraverso la scrittura. Fu un’arma di offesa più che di difesa».
Come un oggetto contundente?
«Se non facesse anche male a cosa servirebbe?».
Non una letteratura del dolore?
«Per carità, niente lacrime, solo pugni che tramortiscano o mettano al tappeto».
So che insieme ai criminali e agli artisti ami la boxe.
«Quando è grande, la boxe è sintesi tra arte e crimine».
In “Arsenale di Roma distrutta” descrivi te bambino che assiste all’incontro tra Benvenuti e Monzón.
«Il Palasport sembrava il Colosseo. Al centro due gladiatori. Intorno una fauna incredibile: macellai, pescivendoli, usurai, prostitute, ladri e criminali. C’erano anche impiegati e giocatori di carte e di biliardo. La Roma slabbrata, minuta e variopinta s’era data appuntamento per il suo idolo: Nino, il campione del mondo che metteva in palio la corona».
Fu una grande delusione.
«Un bagno di realismo, degno di entrare in qualche capitolo del Principe. Furono dodici round di desolante crudeltà, in cui un indio sconosciuto demolì l’eroe popolare. Ne prese il posto. Non rubò nulla. Espresse solo il suo intollerabile e devastante dominio. La gente dai palchi gridava e implorava».
E tu?
«Avevo dieci anni, quella sera del 7 novembre del 1970 compresi improvvisamente, come in un lampo, che non c’era poi tutta questa grande distanza tra un artista e un criminale».
Spiegati meglio.
«Non è facile e non vorrei essere frainteso. Ma in tutti i miei libri c’è sempre un segreto nero, una roba feroce, un punto di non ritorno. Quand’ero ragazzino mi capitava di incontrare certe figure ai margini o totalmente fuori dalla legge e, col tempo, ho pensato che sono in un certo senso speculari agli artisti. Entrambi cercano l’assoluto e per questo rischiano il naufragio, il fallimento, la morte».
Non c’è troppa mitologia in quel che dici?
«Può darsi, ma non me ne frega niente. E comunque viva il mito. Conta avere uno stile, se no che cosa conserverebbe la memoria? Quando vidi Benvenuti finire al tappeto al dodicesimo round, fulminato da un colpo di pistola sotto forma di cazzotto, ho capito che uno scrittore, come il pugile, potrà anche diventare campione del mondo, ma finirà quasi sempre per combattere in qualche ring polveroso di provincia. E allora non ti resta che lo stile e la memoria».
Cos’è per te lo stile?
«Ti confesso una cosa. Quasi tutti i libri che ho letto li ho cercati non nelle librerie, ma sulle bancarelle. Romanzi finiti lì per morire e che con mano pietosa salvavo per un attimo dall’oblio. Non credo, lo avrai capito, alla posterità letteraria. Sono una freccia che non viaggia nel tempo ma sta conficcata tra il passato e il presente. Mi chiedevi dello stile.
Ebbene, lo stile è tutto quello che mi ha formato pescando con rara casualità tra i banchi presieduti da ometti intirizziti che ti scrutavano per paura che gli fregassi un libro. Lì ho incrociato Bataille e Blanchot, Rimbaud e Verlaine; ma anche Domenico Rea e Luciano Bianciardi: gente che ha passato il tempo a demolire la propria biografia. E ho capito che quello era il mio stile, l’unica via possibile tra letteratura e vita».
Hai esordito come poeta.
«È vero, con un libro che intitolai Per punizione, volevo capire fino a che punto sarei riuscito ad andare in fondo accettando l’idea che ogni trasgressione ha come contropartita un prezzo da pagare. Ero un ragazzo solo, inquieto, periferico. Poi ho sentito che la poesia non mi bastava e allora l’ho messa nella narrativa. Per affinare la grammatica del romanzo non c’è di meglio della velocità e della sintesi che il linguaggio poetico offre».
Le ambientazioni dei tuoi romanzi rinviano a un mondo post-pasoliniano.
«Del Pasolini narratore non mi interessa quasi nulla. Forse solo il suo romanzo più diroccato, Petrolio, conserva un certo fascino. Mentre è grande cineasta. I suoi film raccontano la sua morte simbolica. E se a Salò- Sade togli la maschera sociale del fascismo, scopri il vero volto di Pasolini, il bisogno incontenibile che aveva di parlare della propria oscenità. È un film che non si riesce a vedere tanto risulta brutale».
Quando parli della sua morte a cosa pensi esattamente?
«Penso alla sua fisicità, che è una fisicità di morte. L’ho sempre visto come un cadavere in movimento che trovò in una città pagana, ermafrodita e barbara come Roma, la ragione di fingere disperatamente pur di continuare a vivere. L’anno in cui fu ammazzato guidavo senza patente. Non avevo l’età. Pensai che anche lui non avesse più l’età per vivere, ma solo quella per rischiare».
Lo hai conosciuto?
«No, in compenso ho frequentato Sergio Citti. Una volta Laura Betti mi disse: “Sergio è la mente barbarica di Pier Paolo”. Ed è vero. Lo capisci se vedi Ostia, un capolavoro, perfino meglio di Accattone o Mamma Roma. Era un visionario, Sergio. Spiritoso e tragico. Una volta parlando di Pasolini disse: “La prima cosa che ho imparato da Pier Paolo è che il pollo non ha quattro zampe ma due!”».
Di scrittori, diciamo non della tua generazione, chi hai frequentato?
«Sono stato amico di Amelia Rosselli. Non parlavamo mai di letteratura. Mi diceva che somigliavo a Tyrone Power, ma che non dovevo fare gli occhi da pazzo. La turbavano. Era, tra l’altro, convinta che la Cia la perseguitasse. Soffriva di paranoie. Un’altra amicizia fu quella con Domenico Rea. Adoravo i suoi racconti. La prima volta che gli fui presentato come aspirante poeta, mi guardò con aria di commiserazione e poi disse: “guagliò è meglio che tu apra una macelleria”».
Come reagisti?
«Ci rimasi male, ma lui era un grande. Quando finalmente andai a trovarlo a Napoli parlammo a lungo dei suoi romanzi. “Si vede che hai studiato”, mi disse. E poi aggiunse: “ti voglio regalare una cosa”. Pensai a un suo libro. A una dedica affettuosa. Mi portò davanti a una cassettiera, l’aprì e disse: “mo’ scegliti una cravatta”. Era così, Mimì: sorprendente. Un pezzo unico di questo Paese ormai alla deriva».
Non ti piace l’Italia?
«Ho scritto un piccolo poema su questo Paese disgraziato, che ho quasi sempre girato da solo, in macchina: pura psico-geografia. Fermarsi in qualche posto e restare in auto a scrivere le impressioni del momento. Ho sempre adorato le grandi cilindrate: i motori. Meccanica del corpo. Più che della mente».
Che cosa devi compensare?
«Nei momenti difficili sento affiorare il lato ipocondriaco. Penso alla fragilità del corpo, al suo mutare consistenza. Forse è questo che mi fa amare i motori e l’energia pura che sprigionano. Forse è una richiesta d’amore, un bisogno di affetto. Sono sempre stato abituato a vivere da solo. Da ragazzo ero inadeguato. Entravo e uscivo da un equilibrio. Lo sconforto sempre in agguato. Come quando morì mia madre. Un’esperienza devastante. Aveva 67 anni io 44. Se ne andò con solo la vestaglia indosso. In un grande magazzino le comprai un tailleur. Era l’ultimo doveroso tributo di eleganza per una donna che era stata verduraia e gioielliera».
In fondo anche la tua vita è stata segnata dagli opposti.
«Sono stato ricco, per via dell’eredità del nonno, ma anche povero a causa di mia madre che certe volte con i soldi non arrivava alla fine del mese. Ho vissuto nel lusso e nella miseria. Mi sono appassionato di romanzi e di televendite. Ho preso le parti degli spodestati e dei miserabili, ma non ho mai creduto a un mondo migliore. Mi sono smarrito tra criminali di una volta, tenere puttane, boxeur al tramonto, calciatori immensi. Sono stato orfano e figlio di più padri. Aspiro all’immortalità ma so che tutto è destinato a svanire. Forse davvero avrei dovuto aprire una macelleria: la carne è il solo destino che marchia e ci rappresenta».