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 2018  aprile 16 Lunedì calendario

Che cosa bisogna fare. Rispolveriamo la ricetta di Ciampi per risanare

differenza di altri Paesi che ci guardano con il ditino alzato, lo Stato italiano non ha mai fatto default. Ha sempre pagato i propri debiti. I nostri risparmiatori invece sono stati coinvolti, anche in anni recenti, in fallimenti sovrani altrui: Argentina (2001) Russia (1998). Siamo ottimi pagatori, tanto è vero che il nostro mercato dei titoli di Stato è tra i più efficienti e liquidi del mondo. Qualche dispiacere però – come ricorda Federico Fubini nel suo libro La maestra e la camorrista (Mondadori) — lo abbiamo dato anche noi agli investitori esteri. Svalutando ripetutamente la lira negli sciagurati anni 80 e all’inizio dei 90. Un periodo nel quale la spirale tra inflazione e svalutazione, oltre all’esplosione della spesa pubblica, ha raddoppiato il rapporto del debito pubblico rispetto al prodotto interno lordo (Pil). Nel 1980 era al 56 per cento, in linea con i parametri di Maastricht. Nel ‘92 al 105 per cento. Ma certamente pochi ricorderanno – facendo un salto ancora indietro nel tempo – che a un certo punto, all’esplodere della crisi petrolifera, nel 1974, fummo costretti, in un momento di forte disavanzo della nostra bilancia dei pagamenti, a chiedere un primo prestito (il secondo nel ‘76) al Fondo monetario.
In diritti speciali di prelievo. Poco dopo la Banca d’Italia dovette dare in garanzia alla Bundesbank 515 tonnellate di oro a copertura di un finanziamento di due miliardi di dollari. E il metallo giallo fu trasferito fisicamente, a disposizione del creditore, all’interno di Fort Knox. Non si fidavano più di tanto. 
La storia 
Questo sentimento dei tedeschi nei confronti degli italiani non è molto cambiato negli ultimi anni, a maggior ragione da quando condividiamo la stessa moneta. Nel 2011, al vertice europeo di Nizza, quando lo spread fra i rendimenti dei nostri titoli di Stato e quelli tedeschi era ormai insostenibile, venne caldamente consigliato al governo Berlusconi di accettare l’aiuto del Fondo monetario che, detto per inciso, è creditore privilegiato (vuole essere pagato per primo). Allora i meccanismi di sostegno europeo erano in costruzione o percepiti come deboli dal mercato. Non avevamo, come oggi, il fondo Esm o l’ombrello, peraltro mai usato, dell’Omt. 
Oggi, ieri, domani 
Il confronto tra le condizioni del Paese di oggi e quelle di allora spiega in parte l’attuale calma (ma per quanto ancora?) dei mercati dopo il voto del 4 marzo. Il deficit di bilancio (nel 2011 al 4,2 per cento) è dimezzato. Le partite correnti erano largamente in sofferenza (47 miliardi); oggi c’è un cospicuo surplus (50 miliardi). La posizione finanziaria netta del Paese è significativamente migliorata. Era negativa per 337 miliardi nel 2011. L’anno scorso era sempre negativa, ma per 139 miliardi. Ridotto l’indebitamento estero delle banche sul totale delle passività. L’11,19 per cento nel 2011; il 7,65 per cento l’anno scorso. La quota del debito pubblico posseduta dai non residenti nel 2011 era intorno al 50 per cento; oggi siamo un po’ sopra il 30. Il debito era però al 116 per cento; oggi è al 131,8, nonostante il Quantitative easing della Bce, dal marzo del 2015, abbia ridotto il peso degli interessi attualmente al 3,9 per cento, la metà della media dei quindici anni precedenti (7,7). 
Il punto 
Qui sta il punto nell’analisi dei grandi fondi internazionali. Che cosa accadrà quando, forse anche prima della fine del mandato di Mario Draghi a Francoforte, termineranno gli acquisti di titoli pubblici? La scomparsa di un compratore sicuro di Bot e Btp comporterà subito una accresciuta volatilità. Ma la Bce reinvestirà nel Paese di emissione la liquidità ottenuta vendendo i titoli accumulati durante il Quantitative easing. L’impatto, dunque, sarà per certi versi attenuato. Lo studio che Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici della Cattolica, ha fatto per The European House Ambrosetti, disegna poi altri possibili scenari. La durata media del debito, composto da 193 titoli attualmente in circolazione, è cresciuta. Ed è un fatto positivo. Oggi è di 6 anni e 11 mesi. Nella media degli altri Paesi europei. Il Regno Unito è a 15 anni. Ma c’è chi si è spinto a emettere titoli a cento anni (il massimo nostro è 50) o addirittura perpetui. La stessa Argentina ne ha lanciato uno da dieci miliardi di dollari, scadenza 2117. Auguri. La cosiddetta maturity costituisce uno scudo all’eventuale e prevedibile rialzo dei tassi dopo la fine del Qe. Lo studio coordinato da Cottarelli stima che, in assenza di choc esterni fino al 2021, il tasso medio all’emissione – che nel 2017 è stato allo 0,68 per cento contro il 3,61 del 2011 – risulterebbe inferiore al costo medio dello stock di quelli in circolazione. Insomma, abbiamo una riserva di tempo di due o tre anni. Il modello prevede uno scenario peggiore, in recessione, con il rapporto al 149,4 per cento, sempre nel 2023. L’ipotesi migliore, con crescita e inflazione in linea con le ipotesi del Def (Documento di economia e finanza) è al 112,7 per cento. 
Le previsioni
Una recessione è probabile nei prossimi anni. L’attuale fase di espansione è tra le più lunghe della storia. Dunque, sarebbe saggio proteggersi, non solo con le riforme e il taglio delle spese improduttive, ma soprattutto aumentando il cosiddetto avanzo primario, ovvero la differenza tra entrate e spese al netto degli interessi sul debito. Nel 2017 l’avanzo è sceso all’1,9 per cento, all’1,5 tenendo conto dell’esborso per il salvataggio delle banche venete. Basterebbe portarlo un po’ più su, almeno tra il 3,5 e il 4 per cento, congelare per esempio la spesa in termini reali per i prossimi tre anni, per realizzare un cuscinetto soddisfacente che ci difenderebbe da eventuali choc e dal ripetersi delle condizioni del 2011. 
Con l’adesione all’euro il beneficio sugli interessi fu cospicuo. Si pagava l’equivalente di 115 miliardi nel 1996. Nel 2006 l’esborso fu di 66. L’avanzo primario accumulato prima dell’ingresso nell’Unione monetaria dal governo di Romano Prodi con Azeglio Ciampi all’Economia fu poi assottigliato negli anni successivi dall’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi. Se fosse rimasto al 4 per cento – è stato calcolato – oggi il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo, nonostante la lunga recessione, sarebbe inferiore al 90 per cento. Cioè nella media europea. Bastava essere previdenti. E avremmo uno spazio enorme per fare investimenti pubblici. Quelli che sono drammaticamente mancati finora.