Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  aprile 16 Lunedì calendario

Scatta il Diess Irae, la battaglia di Wolfsburg

Porte girevoli, rese dei conti, intrighi, veleni e maxi liquidazioni. E alla fine a Wolfsburg è passato lo «straniero»: Herbert Diess è nato in Baviera, a Monaco, come quel Bernd Pischetsrieder che nell’era pre-Winterkorn (e pre- dieselgate ) reggeva il volante del gigante che ha motorizzato la Germania. Cartoline da un passato remoto, di quando il «patriarca» Ferdinand Piëch decideva da tutto e bastava un suo cenno per mandare a casa un amministratore delegato. Sono passati dodici anni dalla cacciata di Pischetsrieder, il «patriarca» è uscito di scena, ma c’è chi sostiene che attraverso i legami con i cugini Porsche (la holding familiare è il primo azionista della Vw e detiene il 52,2% dei diritti di voto all’interno del consiglio di sorveglianza) continui in qualche modo a muovere le pedine. 
La situazione Che siano pettegolezzi o no, la successione al vertice del colosso tedesco apre una lunga stagione di cambiamenti nell’industria automobilistica: l’ultimo mandato di Sergio Marchionne è entrato nel vivo, il numero uno di Fca lascerà nel 2019 dopo quindici anni al timone. E sempre l’anno prossimo a casa della Mercedes è atteso il cambio della guardia fra Dieter Zetsche e il rampante svedese Ola Kallenius che ha scalato quasi tutti i gradini della piramide di Stoccarda. 
Fra i veterani resiste l’eterno Carlos Ghosn: la sua ascesa è iniziata addirittura alla fine degli anni Novanta con il salvataggio della Nissan dalla bancarotta. Ai recenti attacchi del premier francese Emmanuel Macron ha replicato riducendosi del 30% lo stipendio e accettando Thierry Bollorè (cugino del finanziare bretone) come suo vice ed erede designato. Ma l’ultima missione di Mister Cost killer è ancora lunga e consiste nel portare a termine la fusione fra Renault e Nissan superando i dubbi di Parigi e Tokyo. 
Ma è chiaro che adesso fa molto più rumore il passaggio di consegne in Volkswagen fra Matthias Müller e Herbert Diess. Cinquantanove anni, ingegnere meccanico, prende in mano le chiavi del primo gruppo mondiale (10,7 milioni le vendite nel 2017) che ha 12 marchi, 120 stabilimenti, e 120 mila dipendenti. Perché proprio lui? E perché il suo precedessore è stato scaricato due anni prima della scadenza del contratto dopo aver superato il più grave scandalo nella storia della Casa (gli utili dell’ultimo bilancio ammontano a 11,7 miliardi, un record) nonostante il salasso dei risarcimenti per 25 miliardi? Serviva un volto nuovo per traghettare Wolsburg verso sfide inedite e Diess è stato ritenuto l’uomo giusto. È arrivato dalla Bmw poco prima della bufera sulle emissioni truccate, come capo del marchio Volkswagen ha risolto aspri conflitti con i sindacati approvando un piano di risparmi per 3,7 miliardi che prevede l’uscita graduale di 30 mila in organico. Acqua passata se all’indomani della nomina Bernd Osterloh, il rappresentante dei lavoratori che siede nel board, si espone così: «È la persona che serviva». 
I suoi interventi da «tagliatore», sul brand capofila, che conta per il 60% delle vendite complessive del gruppo (6,2 milioni di veicoli), hanno fatto crescere la redditività dei modelli e limitato le sovrapposizioni con i «cugini» di Skoda e Seat; inoltre la sua conoscenza della tecnologia elettrica (alla Bmw fra i tanti incarichi – è stato anche il direttore della fabbrica di Oxford dove è «rinata» la Mini – ha seguito la creazione del marchio «i») darà impulso al piano da 34 miliardi sulla mobilità ecologica. 
Ed è qui che il bavarese si gioca buona parte del suo futuro, come conferma il fatto di essersi tenuto la delega sulle attività di ricerca e sviluppo: la Volkswagen deve dimostrare di essere cambiata, deve cancellare i danni d’immagine (ed economici, perché le dispute legali in tanti Paesi non sono affatto chiuse) e imporsi come leader dell’auto elettrica, dopo aver sottovalutato la sfida proveniente sopratutto dalla Toyota, che ha inventato la tecnologia ibrida di massa. Ed è anche per questo che i giapponesi continuano sotto la guida di Akio Toyoda, nipote del fondatore. 
«Abbiamo perso molta fiducia con il diesel sia in Germania che nel resto del mondo, il cammino da percorrere è lungo ma siamo ben avviati» ha ammesso il nuovo boss tedesco. Fra i primi dossier sulla scrivania trova lo scorporo della divisione camion salutato con entusiasmo dalla Borsa, la valutazione di attività non core – «Ma sulla Ducati non è stata ancora presa alcuna decisione» —, e la riorganizzazione interna con una struttura più agile, un taglio netto al vecchio sistema «burocratico» dell’epoca Winterkorn: i marchi generalisti da un parte (Vw, Skoda e Seat), l’alto di gamma con l’Audi, infine piani alti il lusso con Porsche, Bentley e Bugatti e Lamborghini. La divisone cinese (La Repubblica Popolare è ormai il primo mercato da anni)sarà autonoma. 
I maligni fanno notare che tanto potere nelle mani di un solo uomo a Wolfsburg non si vedeva dai tempi di Piëch, Diess infatti manterrà anche la responsabilità del marchio principale, oltre a numerose altre deleghe. Coincidenze?