La Stampa, 16 aprile 2018
Boston ancora pioniera la maratona apre ai transgender
La prima donna che ha corso una maratona ufficiale lo ha fatto vestita da uomo, si nascondeva perché non aveva il permesso di iscriversi. Sono passati 51 anni e Boston, la 42 km più antica che esista, ha imparato a non escludere. In una gara di resistenza in cui gli amatori non corrono contro gli avversari ma per sé, la divisione di genere non ha senso. Oggi cinque atlete nate uomini si presentano alla partenza per quello che sono adesso, delle donne. E non dovranno fingere. Tanto meno travestirsi. Boston è abituata a dettare legge nel mondo della corsa. Non è un caso che Kathrine Switzer abbia scelto quelle strade nel 1967 per fare la storia. Purtroppo il potere di questa gara l’ha anche trasformata in bersaglio nell’attentato di 5 anni fa. Ferita è subito ripartita.
Lì si decidono le regole, pure i limiti: il percorso è un saliscendi continuo che finisce con la heartbreak hill, l’ultima delle quattro colline, a 10 km dal traguardo. Boston è la città perfetta per strappare un protocollo un po’ datato e ridisegnare il sistema.
Non si sa quanti transgender ci saranno questo pomeriggio tra i 30 mila al via, non è obbligatorio dichiarare il proprio passato ma adesso non è vietato farlo e cinque signore hanno deciso di rivelarsi, di dire che sono nate uomini e diventate donne e che vogliono poter segnare un cronometro nella categoria a cui sentono di appartenere.
Gli altri seguono l’esempio
Una di loro ha forzato l’apertura, Amelia Gapin, di Jersey City, in marzo ha scritto su un blog di aver fatto il tempo gareggiando da donna, spiegava il rifiuto di un’identità in cui ormai non si riconosce più. Si è aperto ben più di un dibattito: insulti, indignazione, pro e contro dai toni non proprio amichevoli. La direzione della corsa si è ritrovata al centro della polemiche e se ne è subito tirata fuori: «Noi vogliamo essere aperti al maggior numero di persone e sensibili verso certe questioni. Non riteniamo di dover chiedere trascorsi medici o valutazione legali». Occorre solo aver cambiato i documenti, chi non ha affrontato ancora la procedura non può accedere «ma in futuro cercheremo di valutare ogni singolo caso».
Lo sport olimpico ha aperto ai cambi di sesso, ma le atlete devono dimostrare di avere il testosterone sotto certi livelli e ovviamente non avere nessun valore che risulti alterato in un controllo antidoping.
Boston non chiede nulla e siccome è l’avamposto del futuro, le altre maratone seguiranno la stessa politica. New York, Chicago, Londra e Los Angeles hanno già detto che imiteranno l’esempio. Questa corsa funziona così: come un faro in mezzo alla fatica, un punto di riferimento.
Non tutti si sono arresi alla nuova visione. Molti si rivoltano perché questa 42 km carica di significato non chiede il certificato di nascita, ma tempi precisi di qualificazione divisi in categorie di età e, appunto, di genere. Stevie Romer ha 53 anni, ha corso da uomo e ora la fa da donna e a chi le rinfaccia il vantaggio risponde: «Non mi sembra, mi porto dietro tutta la strada fatta per passare da chi volevano che fossi a chi sono».