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 2018  aprile 15 Domenica calendario

A tavola con Maurizio Cattelan: «Fare arte è come possedere le menti»

Per Maurizio Cattelan l’arte non è solo disturbo delle quiete pubblica o racconto del rumore della realtà. «L’arte è molte cose. Tutte contraddittorie tra loro, eppure tutte vere. Coinvolgente, provocatoria, esclusiva, documentaria, partecipativa, incomprensibile o didascalica».
«La vera sfida per un artista – spiega – è che la sua opera sopravviva nel tempo. In un mondo così sovraffollato di immagini veloci e facili da consumare, il lavoro degli artisti riguarda sempre più il potere delle immagini che producono: se funzionano, possono durare secoli».
Questa “A Tavola Con” si è svolta e, allo stesso tempo, non si è svolta. Si è svolta tutta per iscritto, via mail. Ma, se si fosse svolta di persona, Cattelan avrebbe scelto di farla al Burger King che si trova all’interno dell’autogrill all’altezza di Cormano, nel tratto della autostrada A4 che diventa tangenziale milanese, direzione Venezia. Io sarei arrivato al parcheggio antistante al Burger King con la mia Fiat Doblò. «Io invece sarei partito con largo anticipo, per potere arrivare a piedi», dice lui.
Nella dimensione insieme ambigua e chiara dell’assenza, l’immaterialità dell’incontro consente di eliminare i reciproci imbarazzi e le reciproche timidezze, facendo emergere il suo pensiero ed evitando qualunque rischio di fare trascendere la personalità nel personaggio.
Cattelan è capace di suscitare allo stesso tempo l’adesione o la critica degli studiosi, la curiosità e l’interesse dei non specialisti e l’apprezzamento se non la foga dei mercanti d’arte. Riesce ad amalgamare, in un tutto unico, il senso dell’umorismo e la riflessione al limite del metafisico. E a giocare con i media. Pur distinguendoli dall’arte: «Ciò che conta nell’arte, a differenza della comunicazione, è la possibilità di permanenza, il poter impressionare la mente di qualcun altro: in qualche modo è come possederla. Credo che ogni artista sia stato ossessionato da questo pensiero. Più di tutto il resto, credo che l’arte abbia il compito di essere rilevante per più tempo possibile. Dal punto di vista dei media, invece, trovo affascinante la possibilità di rendere le cose virali: mi sembra la cosa che si avvicina di più all’avere un superpotere».
Se ci fossimo incontrati al Burger King, io avrei avuto il vestito d’ordinanza: pantaloni grigi e gilet grigio, giacca spigata grigia, camicia a quadretti minuscoli e cravatta nera di Gucci. «Io invece – immagina lui – avrei indossato una maglietta e dei jeans scuri e un giubbotto con scritto RICH BITCH col il tape argentato».
Nel meccanismo di ibridazione reciproca fra realtà e rappresentazione, Cattelan non ritiene che vi sia una distinzione fra la persona e l’artista: «Penso che sia un discorso valido solo per gli attori: interpretano così a lungo ruoli diversi per lavoro che ho l’impressione che quando scendono dal palco si faccia fatica a riconoscerli come individualità. Gli artisti non hanno questo problema, la maggior parte delle volte sono esattamente così come si presentano. Per quanto mi riguarda, non credo ci sia nessuna separazione tra tutti i miei io, sono tante facce della stessa medaglia».
I tanti io che si ricompongono. E anche i tanti luoghi che si intrecciano e che si rincorrono. La Bologna del 1991 della Galleria d’Arte Moderna con un calciobalilla lunghissimo e, come giocatori viventi, undici riserve del Cesena e undici senegalesi. La Londra del 1999 della mostra Apocalypse con Papa Giovanni Paolo II a terra, colpito da un meteorite. La Palermo del 2001 della collina dei rifiuti di Bellolampo su cui Cattelan erige la scritta Hollywood. La Milano dei tre bambini-manichini impiccati nel 2004 a Porta Ticinese e del dito medio collocato nel 2010 di fronte alla Borsa. La New York del Guggenheim, dove nel 2012 nell’esibizione “All” lui crea una installazione con le opere sospese dal soffitto e dove nel 2016 espone “America”, il water in oro a diciotto carati perfettamente funzionante che, a gennaio di quest’anno, la direzione del museo ha offerto a Donald e Melania Trump, i quali avevano chiesto in prestito per il loro appartamento privato alla Casa Bianca il “Paesaggio con la neve” di Van Gogh, già destinato al Museo di Bilbao.
Nella dinamica fra io e noi, fra arte e comunicazione, fra esibizione e performance due città fondamentali per Cattelan sono appunto Milano – dove, se ci fossimo incontrati al Burger King in tangenziale io avrei preso un cheeseburger con doppio bacon e onion rings più una bottiglietta d’acqua gassata, mentre lui avrebbe ordinato una doppia razione di patatine fritte con triplo ketchup e acqua naturale – e New York. In entrambe le città Maurizio ha casa, anche se non ama una abitazione più dell’altra: «Amo entrambe le città, mentre le case, in generale, sono sopravvalutate. Presto molta più attenzione a ciò che è importante avere intorno al mio appartamento, più che a quello che c’è dentro. In un mondo ideale, la mia casa sarebbe stata larga come lo spazio tra due montagne, con solo l’eco intorno a me. Ho sempre preferito la stanza vuota e la mente piena. Il vero lusso è non aver bisogno di oggetti».
La città, le città. L’essenza dell’anima urbana è multipla e articolata: «La cosa più interessante oggi è che per certe cose essere a Milano, a New York, a Mumbai non ha più importanza. Per altre è fondamentale. A New York, anche se sei chiuso dentro casa tua, senti l’energia della città: a soli due isolati di distanza trovi 150 gallerie d’arte. Centocinquanta giovani teste che pensano, ed è sufficiente una passeggiata per incontrarle. A Milano, il complesso di Porta Nuova ha concentrato la parte economica in un’area, ne ha cambiato i connotati, come un lifting, o un incontro di pugilato, a seconda dei punti di vista. A volte basta una rinfrescata al panorama per percepire un miglioramento».
A Milano quest’oggi finisce Miart, la fiera d’arte moderna, arte contemporanea e design. Dopodomani inizia, alla Fiera di Milano-Rho, il Salone del Mobile: «La parte commerciale è stata la motivazione per creare il Salone, ma il risultato raggiunto negli anni va molto oltre a questo. L’energia che si sprigiona durante questa settimana è estremamente vitale e stimolante, paragonabile a quella di centri culturali come Parigi o NY: la città si popola di creativi, circolano idee, nascono relazioni produttive. Trovo che negli ultimi tempi questa energia non abbandoni mai completamente Milano: la puoi sentire in circolo anche tutto il resto dell’anno».
Milano è anche la città di “Toiletpaper”, la rivista da lui fondata nel 2010 con il fotografo Pierpaolo Ferrari. Racconta Cattelan: «TP è in continua trasformazione: adesso vorrei che camminasse con le sue gambe, indipendentemente dalla mia partecipazione. La collaborazione con Pierpaolo ha reso possibile affrontare una cosa, la fotografia, che non avrei saputo fare da solo. E sicuramente abbiamo colto il momento, partecipato a creare un tipo di immagine che oggi è diventata mainstream. È terribilmente difficile da questo punto reinventarsi, soprattutto perché non è la mia unica attività. Ho imparato moltissimo, ma forse per me è venuto il momento di tirare l’acqua».
Il problema della reinvenzione di sé, del proprio pensiero e della propria opera costituisce un fatto esistenziale e culturale, intellettuale e artistico. Dagli esordi a Forlì, negli anni Ottanta, molte cose sono successe. Spiega Cattelan: «La mia vita è costellata di scelte. Ovviamente ogni vita umana comporta delle scelte, ma a partire da quando sono andato via di casa ho cercato di avere il controllo della vita attraverso scelte anche radicali. Parlando di passaggi, credo che ogni lavoro possa essere considerato l’immagine di un problema che ho capito e interiorizzato: tra i 129 lavori esposti al Guggenheim ce ne sono stati moltissimi che vorrei finissero in oblio, e che non ritengo più utili per nessuno, di per sé. Li considero momenti di passaggio necessari per arrivare a quei dieci, massimo quindici lavori che salverei nella maggior parte dei giorni. Mi è stato chiaro dopo la mostra a Le Monnaie: abbiamo fatto una scelta molto ristretta di lavori veramente significativi. Quelli in particolare, una volta messi fianco a fianco, si aprono a una varietà di significati diversi e nuovi. La mostra a Parigi è stata molto utile per tirare una linea tra me e i miei lavori, oltre che una grande occasione di mostrarli in silenzio, senza che fossero messi in ombra dalla figura del giullare che mi è stata cucita addosso».
La figura del giullare cucita addosso dagli altri. La natura dell’artista che si forma nella propria interiorità e nel rapporto con la Storia, per esempio nel dialogo con il futurismo e con il dadaismo. E nell’identità dell’artista – come di ogni uomo – che in fondo appare come un gambler, uno scommettitore pronto a giocarsi tutto in una puntata: «Ammiro il futurismo per l’irruenza e la combattività: alcuni sono addirittura morti in guerra per il proprio ideale. Per quanto nella loro follia, non gli si può imputare una scarsa integrità. Concettualmente il dadaismo è il padre di buona parte dell’arte contemporanea, ed è impossibile non omaggiarlo per l’approccio irrazionale e la libertà di associazione. Il silenzio di Bruce Nauman, la severità di Joseph Beuys, l’affettazione di Raffaello, l’eccentricità di Bernini, l’alchimia di De Dominicis, l’anima dannata di Caravaggio... Tutta la storia dell’arte può insegnare qualcosa, non importa se in senso positivo o negativo. Ma più di tutti credo che ci sia da imparare da quelli che hanno rischiato tutto per la loro idea, come Gesù, o Giordano Bruno».
La figura dell’artista si forma anche – e ancora – nel rapporto con la committenza, secondo il modello del Rinascimento: «Nella storia dell’arte il modello non è cambiato: la committenza e il mercato continuano a esistere, e per fortuna! Non credo che i soldi siano il punto centrale: il vero privilegio degli artisti è di poter gestire il proprio tempo. Anche quando arriva il successo – che solo in alcuni casi corrisponde ai soldi! – questo è l’unico vero lusso, perché il tempo è l’unica cosa che non si può comprare. Ogni artista dovrebbe puntare a gestire al meglio il proprio tempo per ottenere un risultato soddisfacente dal proprio lavoro. È una questione di scelte, non di soldi».
Secondo lui, la differenza tra le persone sta solo nel loro avere maggiore o minore accesso alla conoscenza, e nello sforzarsi di volervi accedere quando le condizioni di partenza non lo permettano. Cattelan proviene da una famiglia normale, né benestante né particolarmente istruita: «Tutte le scelte che ho fatto sono volte a ricercare quell’accesso. Sono un fedele del libero arbitrio molto più che del destino: in questo senso la religione cattolica non ha avuto nessuna influenza su di me, mentre l’eresia luterana è molto più nelle mie corde: sono convinto che il destino non sia altro che la somma delle nostre scelte».
Fra quotidianità e tensione all’infinito, dice: «Credo nel potere della religione: per secoli è stato l’unico strumento di sopportazione della sofferenza. Oggi l’abbiamo sostituita con tanti metodi, nessuno dei quali credo sia altrettanto efficace. La Chiesa è riuscita a raggiungere alla perfezione un obiettivo che tutti gli artisti vorrebbero raggiungere: essere iconici e memorabili. Vorrei che qualcuno potesse dire lo stesso del mio lavoro».
Se questo incontro si fosse effettivamente svolto al Burger King sulla tangenziale all’altezza di Cormano, a questo punto avremmo finito, avremmo riposto gli avanzi nel bidone della spazzatura e saremmo andati al bancone a prendere il caffè. Io l’avrei chiesto macchiato, con l’aggiunta di un Ferrero Rocher. «Io, invece, avrei soltanto preso un bicchiere d’acqua liscio», conclude Cattelan.
.@PaoloBricco