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 2018  aprile 12 Giovedì calendario

«Vi racconto l’arte di uscire da Facebook». Intervista a Jeremy Deller

Alla Biennale di Venezia del 2013, quando rappresentava la Gran Bretagna, Jeremy Deller si aggirava in laguna vestito come se stesse partendo per un safari. Eccentrico e inclassificabile, questo artista nato nel 1966, vincitore del Turner Prize, sembra un musicista grunge, più che una star del contemporaneo con casa a North London. «Amo la musica – dice –. È una fonte costante di ispirazione, leggo un sacco di saggi a tema, ma non so suonare per niente. Proprio ora sto lavorando a un film sulla musica e la politica inglese tra gli anni Ottanta e Novanta». Un’altra passione è la storia del suo Paese, che ricorre di continuo in quello che fa. Come nel video The Battle of Orgreave, dove reclutò 800 persone, tra cui 200 ex minatori, per ricreare il celebre sciopero del 1984. A Milano, oggi Deller presenta un altro “omaggio” molto British: l’installazione Sacrilege a cura di Massimiliano Gioni per la Fondazione Trussardi. Si tratta di una Stonehenge ricostruita fino a domenica nel parco delle sculture di CityLife in scala 1:1 e in versione gonfiabile, dove i bambini – e non solo – potranno arrampicarsi e saltare tra i dolmen di plastica. Prima di partecipare alla Art Week milanese, però, è stato protagonista di un’altra provocazione: ha fatto distribuire nelle strade di Londra e di Liverpool migliaia di volantini rosa con sei istruzioni semplici e chiare e un titolo: How to leave Facebook. Una performance e insieme un invito, attraverso un pezzo di carta, a lasciare il social network travolto dallo scandalo di Cambridge Analytica.


Mr Deller, partiamo da qui.
Quando ha pensato di realizzare quei volantini?
«In realtà, l’idea è nata a gennaio: l’affare Cambridge Analytica era un segreto non troppo ben custodito. A febbraio avevo fatto stampare le stesse istruzioni per uscire da Facebook sul retro di una maglietta indossata dallo staff della galleria Kettle’s Yard. Sul davanti c’era una playlist di Aretha Franklin.
La cosa aveva destato meno clamore.
Il progetto dei volantini nasce con Rapid Response Unit, un’organizzazione fondata due mesi fa a Liverpool da scrittori, giornalisti e artisti che intendono proporsi come una piattaforma di informazione alternativa al diffondersi incontrollato delle notizie sul web».
Lasciare Facebook può cambiare qualcosa?
«Può essere un’opportunità.
I social network sono una grande occasione mancata. La gestione di Facebook da parte di Mark Zuckerberg si è dimostrata totalmente priva di responsabilità. È sfociata in un monopolio, in un controllo di notizie e di pubblicità a scapito dei cittadini. Forse da questa storia impareremo finalmente a non credere a tutto.
Il vento cambierà. O forse no.
In ogni caso qualcosa si sta muovendo».
Che rapporto ha con i social network?
«Molto sporadico. Uso i social circa una volta ogni tre settimane.
Non mi condizionano la vita».
Sul suo sito web riporta una frase che ha affisso su un mega cartellone: “More Poetry is needed”, c’è bisogno di più poesia. Che cosa intende?
«Intendo poesia in senso ampio. È un approccio di vita che andrebbe
adottato in tutto: nelle relazioni con gli altri, nella politica...».
Non è la prima volta che lancia messaggi politici. Lo scorso anno, in piena campagna elettorale, attaccò in giro un manifesto che irrideva allo slogan di Theresa May “strong and stable”. Si considera un artista politico?
«Non nel senso tradizionale del termine. Risulta chiaro da quello che faccio che la politica e la società mi interessano. Ma non sono un attivista. Non partecipo a dibattiti. Amo un certo tipo di provocazione e un certo modo di far passare i messaggi attraverso l’arte. D’altronde, soprattutto in questo momento, con quello che accade, ha un senso. Come si può fare arte e ignorare tutto questo?».
Quindi anche la Brexit può essere una fonte di ispirazione?
«Forse. Non so se possa ispirare nuova arte, ma, così come lo scandalo di Facebook, può essere di sicuro la spinta per una nuova presa di coscienza. Per un nuovo impegno politico. I giovani sono disgustati dalla Brexit».
La sua sembra una nuova forma di arte pubblica. È così?
«Assolutamente. Mi interessa realizzare opere pubbliche.
L’interazione è fondamentale.
Mi piace che con l’opera d’arte si instauri un rapporto fisico, che si possa toccare e godere appieno».
Accade anche con “Sacrilege”, la Stonehenge gonfiabile che oggi inaugura a Milano.
«Ci pensa che cosa significa poter gridare e divertirsi saltando sopra Stonehenge?».
Come le è venuto in mente?
«Amo la storia antica. E in questo caso parliamo del monumento antico inglese più famoso e visitato del mondo. Mi piaceva mettermi lì e guardare come cambia il colore di quelle pietre rispetto alle condizioni del tempo. Gli inglesi comunque hanno molto apprezzato l’idea del gonfiabile».
C’è un tratto giocoso nelle
cose che fa. “Sacrilege” sembra proprio un gioco da bambini.
«I bambini sono i più grandi conoscitori dell’arte contemporanea. Rappresentano il miglior pubblico possibile.
Hanno un rapporto primitivo ed essenziale con l’arte.
Amano i colori, sono fonte inesauribile di immaginazione e le loro reazioni istintive davanti alle opere sono le più giuste e genuine».
È difficile tenere separata l’arte contemporanea dal mercato. Che rapporto ha con questo aspetto?
«L’arte è immortale, mentre il mercato è qualcosa di veloce che si consuma in un’asta del fine settimana. Il valore economico può prescindere dal valore effettivo di un’opera. Il mercato è lo specchio del tempo che viviamo, del potere della finanza. L’arte da sola, invece, ha un potere magico: trasforma gli oggetti e la realtà».
A proposito di mercato, lei ha parlato della carriera del suo collega molto quotato Damien Hirst, definendola “un fallimento”...
«Sì, è vero, si tratta di una strana definizione di fallimento. Il punto è che sono deluso dalle cose che fa.
Le sue opere sono noiose, si tratta ormai di parodie di parodie.
È possibile disporre di così tanti soldi e continuare a ripetersi?».
È vero che da ragazzo incontrò per caso Francis Bacon?
«Sì, avevo diciassette anni e la cosa incredibile è che a scuola dovevo scrivere un testo su di lui.
Ero in una galleria e me lo ritrovai lì. Fu gentilissimo con me, chi l’avrebbe detto? Rimasi scioccato, parlammo per un quarto d’ora.
Mi ha insegnato come comportarmi poi, da artista, con le persone.
È stato indimenticabile».
A che cosa serve l’arte oggi, Mr Deller?
«L’arte serve a tutti, proprio a tutti».
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