la Repubblica, 12 aprile 2018
La sconfitta dei ragazzi in bicicletta
Il primo round l’ha vinto l’economia dei lavoretti. Il Tribunale del lavoro di Torino ha stabilito che tra i fattorini, che avevano fatto causa per essere stati allontanati dopo aver osato lamentarsi, e Foodora, che li ha allontanati, ha ragione la seconda. Non c’è stato bisogno di licenziarli, neppure ad nutum, con un cenno del capo, perché non sono mai stati assunti. È bastato, come direbbe Uber, disattivarli dalla piattaforma. Il datore di lavoro, che mette mano alla pistola se solo lo chiami così, schiaccia un pulsante e game over, sei fuori dal sistema. Perché, sembrano argomentare i magistrati – ma si capirà solo con le motivazioni della sentenza – «sono autonomi, non dipendenti».
A ottobre scorso, un analogo tribunale britannico ha deciso all’opposto che gli autisti Uber non possono essere considerati independent contractors. Di che autonomia parliamo, scriveva il giudice, quando l’azienda «intervista e recluta i guidatori; controlla le informazioni essenziali sui clienti; richiede agli autisti di accettare le corse e non cancellarle; decide il tragitto; fissa il corrispettivo; impone numerose condizioni, li istruisce su come comportarsi e controlla la loro performance; li valuta; li punisce»?
Già. E quindi andavano inquadrati almeno come workers, una tacca sotto i dipendenti, con tanto di minimo salariale e diritto al festivo. Uber, imbufalita per l’inedita sconfitta, ha fatto appello e a novembre scorso ha perso anche quello.
Vale la pena, per parlare di questa storia italiana, guardare alla Gran Bretagna.
Perché lì la gig economy è molto più diffusa e il dibattito più adulto. E non ha niente a che vedere con la faglia destra/sinistra. La conservatrice Theresa May ha nominato una task force per capire come tutelare questa avanguardia precaria. Il suo ministro della Finanze Philip Hammond ha lanciato l’allarme: «Se non facciamo pagare le tasse a queste aziende mancheranno all’appello 3,5 miliardi di sterline entro il 2020-21». E il laburista Frank Field, a capo di una commissione parlamentare d’inchiesta, ha parlato di freeriding, l’andare a sbafo dello Stato sociale quando questi ragazzi – che tendenzialmente non pagano i contributi – si faranno curare all’ospedale per una brutta caduta.
Questo è il punto politico: la gig economy ci impoverisce tutti, anche quelli che non ne sono protagonisti, perché mettendo una toppa oggi alla povertà dilagante ci restituirà domani una società con meno diritti (e meno imponibile). Una consapevolezza che difetta ai nostri politici, anche quelli che dovrebbero capire di più l’innovazione come Matteo Renzi che, ancora pochi giorni prima del voto, citava Airbnb come un esempio di successo. Peccato che, mentre il settore alberghiero francese versava 3,5 miliardi di euro di tasse nel 2014, la piattaforma dell’ospitalità, grazie a un’elaborata triangolazione elusiva, ne dichiarasse la miseria di 83 mila. Una coscienza del problema che manca anche a noi, nella sempre più lancinante schizofrenia tra consumatori e cittadini.
In veste di consumatori, infatti, è molto eccitante ricevere una pizza fumante mentre guardiamo la partita, poco male se ce l’ha consegnata un ragazzino in bici sotto la pioggia per un paio di euro. In veste di cittadini, invece, stigmatizziamo lo sfruttamento e rimpiangiamo lo Statuto dei lavoratori. Dovremmo fare pace con noi stessi. Se un servizio è troppo conveniente, generalmente qualcuno prende troppo poco. I sei ragazzi torinesi hanno annunciato che non si arrenderanno. Non ne va tanto del loro futuro, ma del nostro.