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 2018  aprile 11 Mercoledì calendario

Non sarà un pranzo di gala e nemmeno la fine del lavoro

Nel suo «Opportunità economiche per i nostri nipoti», John Maynard Keynes aveva previsto con notevole precisione, a cavallo del 1930, ciò che sarebbe accaduto cent’anni dopo. L’economista inglese aveva infatti immaginato che l’economia sarebbe diventata talmente produttiva da rendere quasi superfluo il lavoro fisico. Sicché nel 2030 i pronipoti di Keynes avrebbero lavorato solo tre ore al giorno, in una società notevolmente più ricca, mentre il grande problema sociale non sarebbe stato il reddito di sussistenza, bensì la gestione di un tempo libero sconfinato. Orbene, sulla crescita della ricchezza l’economista non si era sbagliato, tutt’altro; ma sull’orario di lavoro era stato esageratamente ottimista. Anche perché di persone che lavorano tre ore al giorno non se ne vedono molte in giro, mentre un gran numero di lavoratori è costretto ad avere almeno due impieghi per sopravvivere.
L’IMPATTO DEVASTANTE
Sia chiaro, non siamo ancora all’impatto devastante predetto da Jeremy Rifkin nel suo «Fine del Lavoro» dato alle stampe nel 1995. E tuttavia, lascia interdetti l’eccesso di ottimismo di buona parte dei tecnologi che sostengono che i lavori che scompariranno per effetto del progresso tecnologico verranno sostituiti, come è sempre accaduto nei secoli scorsi, da nuovi mestieri in settori dell’economia che nascono proprio grazie alle invenzioni.
Per chi è abbastanza avanti negli anni, ma ha la fortuna di disporre un osservatorio privilegiato, è forte la sensazione che ci sia una generale sottovalutazione dell’impatto che la rivoluzione digitale sta avendo non solo sul lavoro, ma anche sui rapporti sociali, sulla politica e persino sulla salute dell’uomo.
È pur vero che non dobbiamo ignorare le straordinarie possibilità offerte dall’intelligenza artificiale, ma sarebbe grave errore sottovalutare la scomparsa di un gran numero di mestieri, per ora non sostituiti da altri lavori. Perché se il processo non sarà governato a dovere, i benefici dell’innovazione andranno in parte perduti mentre diseguaglianze sempre più estreme potrebbero portare alla rivolta sociale.
L’ETÀ DELL’INNOCENZA
Chi ha colto con precisione gli umori del tempo è Massimo Gaggi nel suo «Homo Premium» da poco in libreria, un’autentica miniera di idee sul futuro e di suggestioni sul presente che però lasciano la porta aperta ad ogni sbocco. Peraltro, con una brillante intuizione (il libro è stato dato alle stampe a cavallo dell’anno), Gaggi, attento osservatore della società americana, anticipa valutazioni sull’attività di campioni come Facebook – diventate pensiero comune solo in questi giorni – che ne attenuano fortemente l’immagine buonista, quasi filantropica, suggerendo anzitempo di soppesare i frutti dell’uso che vien fatto dell’intelligenza artificiale, con la consapevolezza che nella Silicon Valley è finita l’età dell’innocenza.
Del resto, i numeri non sono mai grandezze inerti, rappresentano sempre la base di un ragionamento. Un esempio per tutti: Facebook, che dopo lo scandalo Cambridge Analytica capitalizza in Borsa 460 miliardi di dollari, fino a un mese fa valeva attorno a 520 miliardi con circa 21 mila dipendenti; ebbene, General Electric, Ford, Ibm e At&T insieme, il cui valore di Borsa complessivo supera a malapena 550 miliardi, ogni mese pagano lo stipendio a 1 milione 100 mila addetti. Come non riflettere sul confronto? Appare sin troppo evidente che l’impatto strutturale della tecnologia non solo «mangia» lavoro ma accentua la divaricazione nella distribuzione dei redditi. Ciò è così evidente che sono gli stessi campioni della web a sollecitare interventi di riequilibrio: ecco spiegata la tassa sui robot di Bill Gates o il reddito di sussistenza pagato dallo Stato ai lavoratori che restano indietro di Elon Musk.
Kai-Fu Lee, scienziato e imprenditore molto stimato nelle aule del Mit di Boston, non esita ad ammettere che l’intelligenza artificiale farà per l’umanità cose straordinarie, e tuttavia si dice preoccupato perché sostituirà l’uomo in un gran numero di mansioni che non verranno rimpiazzate da altrettante. Secondo Lee, ciò che è accaduto nelle precedenti rivoluzioni industriali – durante le quali si ampliò enormemente la platea dei lavoratori – stavolta non si ripeterà.
LE VISIONI CUPE
Naturalmente non tutti la pensano come Lee. E mai come oggi il dibattito fu intenso, incrociando opinioni opposte sia nel mondo accademico che in quello delle imprese. C’è per esempio chi, basandosi sulla piena occupazione oggi sbandierata dagli Usa, ritiene che l’intelligenza artificiale non solo non sia la rivoluzione ma non avrà nemmeno impatti significativi sull’occupazione. Mentre c’è chi, come il futurologo Martin Ford, ritiene che «in un modo o nell’altro vivremo tempi brutali», visto che il 30% della popolazione occidentale è destinato a perdere il proprio lavoro.
A onor del vero, le visioni più cupe non considerano le opportunità offerte dal mondo dell’Internet delle cose che sono in gran parte da esplorare. Per non parlare della tecnologia blockchain, davvero agli albori. E tuttavia è assai improbabile che il saldo tra i nuovi lavori e quelli vecchi che scompariranno sia positivo. Per dirla con Carlo Calenda, la quarta rivoluzione industriale non somiglierà per nulla a un pranzo di gala e ciò rende più urgente la revisione delle regole di un capitalismo che non riesce più a correggere i suoi squilibri.