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 2018  aprile 11 Mercoledì calendario

Lo chiamano Sioux. Blandamura riporta Hemingway sul ring

«Sono qui perché un giorno vorrei diventare campione del mondo». «Lei pensi ad allenarsi bene e vedrà che ci riuscirà». Un ragazzo con lo sguardo profondo fece questa promessa entrando per la prima volta in una palestra di boxe. Gli rispose, con tono da uomo d’altri tempi, il maestro Guido Fiermonte. Dal dialogo surreale sono passati venti anni: ora Emanuele Blandamura ne ha trentotto e può chiudere il cerchio. Il 15 aprile a Yokohama lo aspetta il campione del mondo dei pesi medi Ryota Murata, uno che ha modernizzato il Giappone del ring. Ryota non è un soldato dalla faccia antica e due fessure per occhi delle Lettere da Iwo Jima di Clint Eastwood. È uno hi tech, alla moda, con i capelli da cartoon del Sol Levante. Quando boxa però non è finzione: non lo è il suo destro, spesso devastante per la mascella avversaria. Si combatte in un giorno inusuale per il pugilato, la domenica. In Italia sarà l’ora di pranzo, in una società che corre è l’ultimo momento di aggregazione familiare. E la famiglia è un punto sensibile di Blandamura: «Mio padre per motivi di lavoro si trasferì a Udine, dove conobbe mia madre. Quando nacqui, lei aveva 19 anni, non riuscì a gestire la situazione e se ne andò che ero in fasce. Mio padre provo a fare da solo, prese una baby sitter, ma un giorno tornò a casa e la trovò completamente ubriaca…». Un momento di non ritorno, ma per fortuna entrano in scena due angeli con i capelli bianchi: «Mi hanno cresciuto i nonni. Si sono conosciuti a Ferrandina, il paese di lei, è vicino Matera. Il nonno, pugliese di Cerignola, era lì per servizio, faceva il carabiniere. Poi si sono trasferiti a Roma, sono stati insieme solo 60 anni... Erano belli i giorni in cui nonno, scomparso 4 anni fa, si vestiva a festa quando vincevo. Girava per il quartiere mostrando a tutti l’orgoglio di avere un nipote come me».

Blandamura li porta sempre con sé: il ritratto del nonno tatuato sulla spalla, quello della nonna sul costato, senza dimenticare la firma di Zia Teresa, altra figura chiave, sul collo. L’altra famiglia invece... «Mio padre praticamente lo vedevo una volta l’anno, mia madre invece l’ho conosciuta che ne avevo già 27. Se mi sono perso tanto di lei? È lei che si è persa tanto di me...». L’educazione dei nonni però da sola non basta: «Ero focoso, a scuola combinavo poco, cercavo spesso lo scontro fisico perché nella mia interiorità non c’era equilibrio». Poi la scoperta del pugilato: «Questo sport è come se avesse raccolto il mio bisogno di cambiamento. Prima era soprattutto passione, il mio idolo è Sugar Ray Leonard. Poi è diventata una professione (ne ha fatte tante altre, dal panettiere alla guardia giurata, ndr), ora combatto per mangiare». Non solo ring, ma anche una ricerca interiore che si realizza nella religione buddista: «Da 8 anni fa parte della mia quotidianità. Vedo tutto con armonia, vivo gli sforzi di oggi come preludio alla ricompensa che avrò domani. Tra i 17mila spettatori di Yokohama sono sicuro che, proprio per aver abbracciato il buddismo, parecchi giapponesi tiferanno per me».
Ama leggere. Il suo romanzo preferito è Il vecchio e il mare di Hemingway, consumato allo sfinimento per cercare risposte sui profondi significati dell’esistenza. Ama raccontarsi, al punto che a maggio uscirà la sua biografia, Che lotta è la vita. Ama gli indiani d’America, per il suo alias ha accantonato roboanti soprannomi da ring scegliendo
Sioux: «Popolo di alto grado di civiltà, sempre in armonia con la bellezza della natura. Guerrieri fieri che cacciavano per sopravvivere e non per il gusto di uccidere gli animali». Quando entra sul ring la sua colonna sonora è la preghiera Sioux al Grande Spirito, il suo motto è Hoka Hey. «È il giorno». Lo pronunciò Cavallo Pazzo prima di andare a distruggere il generale Custer nella battaglia di Little Big Horn. E allora Hoka Hey, Emanuele, il mondo ti aspetta.