la Repubblica, 11 aprile 2018
L’amaca
Nel suo rapporto “Meno è meglio” Greenpeace invita a dimezzare entro il 2050 il consumo di carne, latte e derivati. L’obiettivo è ridurre drasticamente l’allevamento intensivo, che a parte ogni considerazione di carattere etico è una delle pratiche di produzione del cibo più nocive dal punto di vista ambientale (scialo di risorse idriche, deforestazione, impoverimento dei suoli, gas serra).
Le notizie di questo genere inducono a una inevitabile riflessione sulle proprie abitudini; e su quanto sia complicato, se non rivoluzionarle, almeno riformarle. Il consumo di carne è quintuplicato nell’ultimo mezzo secolo.
Ogni anno vengono macellati sul pianeta Terra circa cinquanta miliardi di animali (dati Fao). Come per molti altri consumi la linea di ascesa non è il mero riflesso dell’incremento demografico (più persone al mondo uguale più cibo consumato). No: esiste una “linea interna” a ciascuno di noi che punta inesorabilmente verso l’alto, in barba al concetto di sazietà; e riuscire a fletterla anche di poco verso il basso sembra un’impresa titanica.
È un “clima” psicologico ben noto a chi prova a mettersi a dieta: dimagrire è più difficile che ingrassare. E dunque: al netto del pauperismo querimonioso il concetto di decrescita è, da ogni punto di vista, forse il più razionale e certamente il più “politico” che abbiamo a disposizione per discutere del futuro, non solo alimentare.