la Repubblica, 11 aprile 2018
Oleg e i suoi fratelli travolti dalle sanzioni contro la Russia
MOSCA Il magnate russo dei metalli Oleg Deripaska è sopravvissuto al capitalismo selvaggio degli anni Novanta e alla recessione del 2008, ma potrebbe soccombere al contraccolpo dell’ultimo round di sanzioni occidentali.
Venerdì scorso il dipartimento del Tesoro statunitense ha sanzionato sette “oligarchi”, 17 funzionari di governo e 14 enti vicini al Cremlino impegnati in «azioni ostili». Deripaska è uno dei sette “oligarchi” sanzionati.
Non solo, tra le 14 compagnie nel mirino ve ne sono almeno tre quotate in Borsa da lui possedute o controllate: l’holding energetica En+, il secondo produttore mondiale di alluminio Rusal e l’azienda automobilistica Gaz. Le nuove sanzioni prevedono il congelamento di ogni bene sotto la giurisdizione statunitense riconducibile all’oligarca e alle sue compagnie e vietano ai cittadini americani di intrattenere affari con loro. Di fatto estromettono Deripaska dal grande gioco dell’economia globale. L’impatto è stato immediato. Lunedì, all’apertura dei mercati, l’industriale ha perso 1,1 miliardi di dollari, pari al 15% del suo patrimonio netto.
Rusal, che il giorno prima aveva festeggiato su Facebook il suo “diciottesimo compleanno”, è crollata del 50% sulla borsa di Hong Kong e del 47% su quella di Mosca, mentre En+, quotata a Londra, ha perso il 54% tra venerdì e lunedì. Gaz, infine, ha perso il 10% a Mosca. Come se non bastasse, ieri l’ad del colosso minerario anglo-svizzero Glencore, Ivan Glasenberg, ha lasciato il cda di Rusal e la società ha cancellato uno scambio di azioni precedentemente concordato annunciando che valuterà «la sua posizione nel quadro dei contratti con Rusal».
Deripaska non è il solo a scontare le nuove misure: ben 26 miliardari russi sui 27 presenti nel “Bloomberg Billionaires Index” delle 500 persone più ricche al mondo ieri si sono svegliati più poveri. Nella sola giornata di lunedì hanno perso un totale di 16 miliardi. In testa Vladimir Potanin, il magnate siberiano del nickel, seguito da Vagit Alekperov, direttore esecutivo della compagnia petrolifera Lukoil, e Viktor Vekselberg del gruppo Renova.
Duro colpo anche per l’economia russa: il rublo è precipitato per due giorni consecutivi arrivando a superare quota 63 sul dollaro e 78 sull’euro per la prima volta dal crollo del petrolio nel 2016.
Per Deripaska le sanzioni rappresentano anche l’esilio dai circoli di potere occidentali che ha coltivato per anni con party a bordo del suo yacht o feste annuali al forum di Davos. Nato cinquant’anni fa a Nizhnij Novgorod, città sul Volga, ha fatto fortuna rilevando a prezzi stracciati varie società nel settore siderurgico, poi confluite in En+, approfittando del vuoto di leggi e istituzioni seguito al crollo dell’Urss. È poi riuscito a stare sempre all’ombra del potere, prima sposando una nipote di Boris Eltsin, poi diventando un uomo fidato di Vladimir Putin. Sarebbe stato lui ad aggiornare il Cremlino in vista delle presidenziali Usa 2016 grazie ai suoi legami con Paul Manafort, l’ex capo della campagna di Donald Trump incriminato per cospirazione. Ed è proprio per questo che sarebbe finito sotto il fuoco incrociato delle sanzioni del Tesoro. Anche se c’è chi pensa, come l’editorialista di “Bloomberg” Leonid Bershidskij, che Washington in realtà abbia voluto liberare il mercato dalle importazioni di alluminio dalla Russia più efficacemente di quanto sarebbe riuscita con i dazi. Ora tutti si chiedono chi sarà il prossimo bersaglio.
«Pensate – ha scritto sul suo profilo Facebook Vladimir Milov, ex viceministro dell’Energia – che cosa sarebbe successo se a finire nella “lista nera” fossero state Gazprom, Rosneft o Sberbank».