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 2018  aprile 09 Lunedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - FACEBOOK, YOUYUBE E LA PRIVACYHA appena finito di scusarsi per lo scandalo Cambridge Analytica, che subito torna con un mea culpa di fronte al Congresso Usa

APPUNTI PER GAZZETTA - FACEBOOK, YOUYUBE E LA PRIVACY

HA appena finito di scusarsi per lo scandalo Cambridge Analytica, che subito torna con un mea culpa di fronte al Congresso Usa. Sono giorni di fuoco per il patron Mark Zuckerberg, chiamato a riferire sulle policy della sua compagnia sulla gestione delle informazioni e la protezione dei dati degli iscritti. Le audizioni di martedì e mercoledì saranno trasmesse in diretta streaming, ma già trapela l’intenzione del Ceo di Menlo Park di ammettere ancora una volta l’errore: "è stato un mio errore e mi scuso. Ho fondato Facebook, lo gestisco e sono responsabile per ciò che vi accade", si legge nella testimonianza.

·IL SOCIAL NETWORK AL TEMPO DELLE ELEZIONI
"Non abbiamo fatto abbastanza per impedire che questi strumenti vengano utilizzati in modo dannoso. Non abbiamo affrontato in modo sufficiente le nostre responsabilità ed è stato un grosso errore", ribadirà Zuckerberg circa la violazione della privacy di cui si assume la responsabilità e che già gli è costata svariati miliardi di dollari con il primo crollo in Borsa.

La lotta contro la ’’misinformation’’ è diventata una priorità, spiega nel frattempo Zuckerberg sulla sua pagina Fb, annunciando le contromisure prese per garantire l’affidabilità del social media, visto il ruolo che riveste nelle elezioni.
·IL NUOVO STOP: CUBEYOU
E nel pieno della bufera scatenata dalla società che ha usato i dati di almeno 87 milioni di iscritti a Facebook per scopi pubblicitari, il social network fa sapere di avere sospeso dalla propria piattaforma social Cubeyou, azienda con base a New York che analizza dati sui consumatori, mentre indaga sull’ipotesi che abbia raccolto informazioni sotto forma di ricerca accademica in collaborazione proprio con l’università di Cambridge. Così Menlo Park mostra i muscoli. "Se rifiutano o non superano il nostro controllo, le loro app saranno bandite da Facebook", ha detto alla Cnbc Ime Archibong, vicepresidente Fb per la partnership nei prodotti.

Inoltre, ha aggiunto, "lavoreremo con la britannica Ico (Information Commissioner’s Office) per chiedere all’università di Cambridge informazioni in merito allo sviluppo delle app in generale da parte del suo centro psicometrico, dato il caso e l’abuso da parte di Aleksandr Kogan", il ricercatore russo della stessa università che ha collezionato milioni di profili Fb.

Stessa tecnica utilizzata da Cambridge Analytica, a quanto pare. Cubeyou, società che offre "conoscenze veloci, facili e accurate sui consumatori", avrebbe infatti raccolto alcuni dei suoi dati tramite quiz Facebook sviluppati in collaborazione con l’ateneo britannico, con cui sostiene di aver lavorato dal 2013 al 2015. Quiz con la liberatoria che le informazioni raccolte sono destinate a "ricerche accademiche non-profit".

Stando alla Cnbc, la prima a riportare le tecniche di Cubeyou, la società ha usato una app chiamata ’You Are What You Like’ - con lo slogan un test di personalità con un clic - per raccogliere dati dagli utenti e tracciare un loro profilo psicometrico. Agli utenti veniva detto che l’app era stata ’’sviluppata con il centro psicometrico di Cambridge, in collaborazione con Cubeyou".

In un’intervista dello scorso gennaio a TmreTV (The Market Research Event) il fondatore di Cubeyou, l’italiano Federico Treu, spiegava le attività della società con sede nella Bay Area: ’’A differenza degli altri noi non chiediamo dati, ma usiamo metadati alla portata di tutti. E’ osservando il comportamento degli utenti (sui social, ndr) che riusciamo a ottenere un profilo fedele (delle persone collegate, ndr)’’. Il tutto utilizzato chiaramente per scopi commerciali, visto che Cubeyou, nata nel 2010, ha sfruttato sin dall’inizio i social media per raccogliere informazioni sui clienti. A raccontarlo è lo stesso Treu su Eastwest.eu ripercorrendo, nel 2015, le tappe dei primi successi legati a Cubeyou, specializzata in ricerca e profilazione.

REPUBBLICA.IT DEL 22 MARZO
SIMONE COSIMI
CON le dichiarazioni di Mark Zuckerberg si chiude la prima fase del caso Cambridge Analytica. Iniziata di certo non lo scorso 16 marzo ma almeno cinque anni fa. Tuttavia negli ultimi giorni una vicenda nella sostanza abbastanza semplice -  dati raccolti da un’app di Facebook con metodi fino al 2014 consentiti e in seguito illegalmente ceduti a una società che li ha usati per confezionare la sua propaganda online - si è mescolata a numerosi elementi, livelli di lettura, protagonisti e coprotagonisti, tanto da partorire un serpentone in cui è sempre più complesso identificare nomi, ruoli, sviluppi e conseguenze. Proviamo a fare ordine.    La premessa  Fra 2013 e 2015 lo psicologo e matematico russo-americano 32enne Aleksandr Kogan, ricercatore a Cambridge e titolare della società Global Science Research, con la scusa di effettuare una raccolta dati per una ricerca accademica, sviluppa e diffonde un’applicazione interna a Facebook chiamata "thisisyourdigitallife". Una specie di quiz sulla personalità che appare simile ai milioni che popolano il sito. Aveva ovviamente già fatto cose simili in passato, per esempio in Russia. La "mette in moto" assoldando collaboratori su una piattaforma di microlavoretti digitali gestita da Amazon, Mechanical Turk, in modo che a cascata gli intrecci del nucleo di partenza possano prima condurre all’iscrizione di circa 300mila persone e poi, a scalare, alla raccolta di informazioni su 51 milioni di americani. Anche se per alcuni la cifra sarebbe sovrastimata. In ogni caso, mentre all’epoca tutto questo era legale, dal 2014 il margine di manovra concesso da Facebook agli sviluppatori di terze parti è stato ristretto: adesso non si possono più raccogliere informazioni degli utenti che interagiscono con gli iscritti a un qualche servizio senza che anche i primi abbiano dato l’autorizzazione. In precedenza, invece, un’app poteva raccogliere una grande quantità di dati anche sulle attività degli "amici degli iscritti", per così dire.    Il fatto  Questa enorme mole di informazioni - la scoperta è di Facebook ma risale almeno a tre anni fa - viene ceduta, non si sa in cambio di cosa, qualcuno parla di 800mila dollari, alla società britannica Strategic Communication Laboratories, in particolare al suo braccio armato per l’analisi dei dati a scopi politici, Cambridge Analytica. Questo passaggio è vietato dalle regole del social network, che in particolare proibiscono la vendita a terze parti o per scopi pubblicitari di dati raccolti per ragioni, almeno formalmente, accademiche. In realtà il lavoro di Kogan era già noto da tempo, così come la sua pervasività. Inferiore a quella scatenata dalle campagne elettorali di Barack Obama, il cui punto di partenza fu tuttavia un’applicazione esplicitamente diffusa con fini di coinvolgimento politico.    Di chi è la Cambridge Analytica  La società non è certo popolata da personaggi qualsiasi. Finanziata coi soldi del 71enne miliardario statunitense Robert Mercer, imprenditore, potente coamministratore del fondo Renaissance Technologies, sostenitore della prima ora di Donald Trump, era guidata dal Ceo Alexander Nix (ora sospeso). Ma per un periodo, quello della sua nascita, era stata di fatto accudita e cullata dal 64enne Steve Bannon, giornalista e paladino dell’alt-right Usa, fondatore del sito Breitbart News ed ex stratega di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca.     Sarebbe stato Bannon a intuire le potenzialità di certe soluzioni sviluppate per esempio da un altro ricercatore, Michal Kosinski (che avrebbe interrotto rapidamente i rapporti con Kogan e con CA) per utilizzare i big data in chiave elettorale e propagandistica sui social network. Ma, ovviamente, in modo estremamente pervasivo, senza che quel flusso di notizie, contenuti, influenze appaia manovrato dall’esterno. Più in generale, Cambridge Analytica sembrerebbe il prototipo di un comitato elettorale digitale 4.0 in grado di sfoderare ogni genere di mezzo, vecchio e nuovo, per cercare di influenzare il voto. Su tutti i metodi, però, ci sarebbe la capacità di incrociare di big data e modelli di valutazione della personalità basati su una quantità di "data point", elementi personali ma anche più strettamente legati a gusti e tendenze, per identificare milioni di "bersagli" pronti a essere colpiti. Facebook era ed è una delle fonti di questa profilazione psicografica, una delle più appetitose. Che questo bombardamento abbia avuto successo, influenzando davvero gli esiti elettorali per esempio negli Stati Uniti (ma la società dice di aver lavorato in oltre 200 tornate elettorali nel mondo) resta tutto da verificare.    In ogni caso, secondo il 28enne ex dipendente e analista Christopher Wylie, fonte primaria delle inchieste di Observer, The New York Times e Channel 4, è Bannon a coordinare direttamente le prime mosse di Cambridge Analytica per l’acquisto di dati, compresi i profili di Facebook, spendendo quasi un milione di dollari. Di altri 10 si era in qualche modo fatto garante l’anno prima per finanziare il lancio di quella società di analisi. "Dovevamo avere l’approvazione di Bannon per qualsiasi cosa, era il capo di Nix, che non poteva spendere nulla senza l’approvazione" ha spiegato Wylie al Washington Post.    Cosa viene contestato a Facebook  Facebook è improvvisamente finita nella tempesta la scorsa settimana, dopo le inchieste firmate da Observer, The New York Times e Channel 4, perché accusata di aver saputo da tempo dell’illecito travaso di dati ma, punto primo, di non aver informato gli utenti coinvolti e, punto secondo, di essersi fidata delle certificazioni fornite da Kogan e da Cambridge Analytica rispetto all’avvenuta distruzione del pachidermico database in loro possesso. Quelle informazioni non erano state affatto distrutte ma anzi, come ha spiegato Wylie, sono state utilizzate fino in tempi recenti per profilare in profondità gli utenti e sottoporre loro flussi di informazioni, notizie e contenuti utili a sostenere la candidatura di Donald Trump.     Dunque Facebook è sotto accusa per non essere stata in grado di garantire la tutela delle informazioni, per non averne impedito in modo efficace il mercimonio e lo scambio, per non essersi assicurata dell’effettiva eliminazione (cosa che vorrebbe fare ora, con una montagna d’inchieste in corso) e per non aver messo al corrente gli utenti coinvolti. Prova ne sia la sospensione degli account della società e di Kogan (ma, incredibilmente, anche della fonte Wylie) solo lo scorso 16 marzo. Una ferita profondissima nel rapporto di fiducia fra piattaforma e utenti: i dati sono la moneta prima del funzionamento di queste piattaforme ma questo non significa che possano essere raccolti ed estorti in modo pretestuoso (Kogan), rivenduti (Cambridge Analytica) e lasciati circolare pur dopo la certezza della loro illecita cessione (Facebook).     Inoltre, dai movimenti tellurici in atto a Menlo Park parrebbe che i vertici della piattaforma non abbiano seguito gli avvisi del capo della sicurezza Alex Stamos, destinato a cambiare incarico se non a lasciare il gruppo nel giro di qualche mese, così come di non aver mai realizzato dei controlli approfonditi sui margini di manovra concessi fino al 2014 agli sviluppatori, come ha spiegato l’ex capo della privacy del social, Sandy Parakilas, in azienda fra 2011 e 2012.    Le richieste delle autorità internazionali  Fin qui la storia. Mentre le risposte di Zuckerberg sono arrivate nella serata (italiana) di mercoledì 21 marzo e possono essere sintetizzate proprio nel riconoscimento della rottura di quel patto di fiducia e nell’individuazione di nuove soluzioni, la vicenda va accavallandosi a inchieste internazionali. Su tutte quella in corso da mesi negli Stati Uniti per mano del procuratore speciale Robert Muller, che indaga sulle presunte interferenze russe nelle elezioni presidenziali del 2016. Dall’estate del 2016 Cambridge Analytica ha infatti lavorato per la campagna di Trump dietro sponsorizzazione dello stesso, onnipresente Steve Bannon. Dell’intreccio farebbe parte anche Michael Flynn, ex consigliere per la sicurezza di Trump poi dimessosi a causa della sua "ricattabilità da parte della Russia". Allo stesso modo il Regno Unito vuole vederci chiaro, visto che Cambridge Analytica avrebbe lavorato anche a favore dell’uscita del Paese dall’Unione Europea in occasione del referendum del 2016. Così come, pare, per un paio di formazioni politiche italiane. Per questo Zuckerberg è stato convocato dalla commissione parlamentare britannica sulla Cultura, i Media e il Digitale presieduta dal conservatore Damian Collins così come dal Parlamento europeo. Intanto negli Stati Uniti è parttia la prima class action contro Facebook e una serie di citazioni dai suoi azionisti.

GIANLUCA DE FEO
Sul grande schermo appare una mappa dell’Italia. Lentamente si illuminano migliaia e migliaia di puntini. Prima azzurri, poi gialli, verdi, rossi. Ogni puntino, un utente. Ogni utente, un potenziale elettore. Siamo nella sala conferenze della Scl di Londra, casa madre dell’affiliata Cambridge Analytica: lavora con i militari britannici, americani e della Nato, gestendo anche l’offensiva social contro il terrorismo islamico. E sono quelli che offrono il più avanzato e intrusivo strumento di propaganda elettorale.
  Gli elettori italiani I colori sullo schermo sono i "gruppi psicografici", i votanti selezionati per valori, stile di vita, interessi, attitudini. I puntini si sovrappongono; non ci sono territori omogenei, salvo una predominanza di azzurri in Sicilia e Sardegna. Permettono di individuare i soggetti a cui rivolgere il messaggio politico del cliente: il modo migliore per indirizzare tramite web, social o spot tradizionali gli slogan giusti alle persone giuste, fino ad orientarne il voto. Quelli di Scl spiegano di poter trattare i dati in modo da profilare anche in aree limitate - una regione o una singola città - o selezionando interessi molto specifici. Usano il verbo inglese "manipulate", che tradotto nella nostra lingua assume un significato sinistro.

Siamo alla fine del 2013, e ora Repubblica è in grado di ricostruire quel meeting. Scl ripete agli interlocutori in sala di avere già operato in Italia, per un partito che "ebbe gli ultimi successi negli anni Ottanta" e - grazie anche a loro - aveva ottenuto alle elezioni un risultato superiore alle previsioni. Sembrano, dunque, avere già la disponibilità di dati sui votanti italiani. Ma non spiegano come li hanno avuti. Né fanno nomi del partito per il quale hanno lavorato. Da maestri della comunicazione quali sono, lasciano intuire che si tratta di un movimento molto a destra, l’area che in Europa ha fornito i clienti migliori e più discreti.
  La caccia al partito L’identikit sembra coincidere con Fratelli d’Italia, fondato nel dicembre 2012 e premiato solo due mesi dopo dalle urne con nove deputati. Fdi recupera il vecchio marchio del Msi, la fiamma scomparsa con la Prima Repubblica ma sempre più forte in Francia con il Front National lepenista, spesso citato tra i referenti di Scl e di Cambridge Analytica. "Non sappiamo di cosa state parlando", rispondono dall’ufficio stampa del partito di Giorgia Meloni. A cavallo tra il 2012 e il 2013 Fratelli d’Italia stava cercando un modo per costruirsi una reputazione sui social network. Lo racconta Marco Baldocchi, dell’agenzia di comunicazione lucchese On Web che a marzo del 2013 venne contattato da un intermediario di Fli. "Ci chiesero uno studio sul sentiment online, per individuare i loro punti di forza e di debolezza. Lo abbiamo realizzato, ma l’intermediario non si è più fatto vivo".

In queste ore i partiti maggiori interpellati - Movimento Cinque Stelle, Partito Democratico e Lega - smentiscono anche solo di avere avuto contatti con i manager della Cambridge finita sotto inchiesta in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e forse anche in Italia. Il Garante italiano della privacy, infatti, sta valutando l’apertura di un’istruttoria.
I sospetti rimangono. Secondo Gian Luca Comandini, fondatore del movimento "10 volte meglio" e a capo di una società di comunicazione che ha gestito le campagne di diversi candidati alle ultime politche, nel 2016 la Lega di Matteo Salvini pensò di rivolgersi a Cambridge. "A quel tempo lavoravo con un esponente di spicco della Lega e si parlava di contatti con l’azienda londinese. Non credo però che si concretizzarono".
  Il leak del video aziendale Del resto che Cambridge Analytica considerasse da tempo l’Italia un mercato in cui espandersi lo dimostra un video interno girato da uno degli analisti di Scl Elections, il ramo politico della compagnia. Documenta una riunione nella sede di Londra dell’aprile 2016 durante la quale, stando alla sovrimpressione "Scl Italy?", si discuteva dell’apertura di una filiale nel nostro Paese. Nello staff hanno almeno cinque ricercatori italiani inquadrati come "data scientists": informatici e psicologi esperti in ingegneria sociale, laureati in Italia e con master all’estero.

Giovanni Doni è uno di questi. Su LinkedIn si trova ancora il suo post, scritto dopo il 4 marzo, intitolato Jeu de Paume. A proposito di un possibile accordo 5 Stelle-Lega, scrive: "Lasciate che Robespierre governi, mentre l’Ancient Regime si riorganizza", riferendosi a Forza Italia e al Partito democratico. Il Pd conosce bene le modalità operative di Cambridge Analytica. "Prima del referendum", racconta una fonte accreditata del Nazareno, "prendemmo contatti con una società americana che svolgeva un lavoro molto simile. Volevamo lanciare la app Matteo Renzi ma ci accorgemmo che questi signori, installata l’applicazione, davano la possibilità al software di accedere alla rubrica telefonica dell’utente. Ci sembrò una violazione importante della privacy. Lasciammo perdere".

FACEBOOK
YOUTUBE finisce di nuovo nel mirino per il modo in cui (non) si occupa dei minori. Dopo l’inquietante fronte dei cartoon fake esploso lo scorso autunno e quello dei video cospirazionisti delle settimane passate – in entrambi i casi l’accusa è di non riuscire a tenerli fuori dalla portata dei bambini né sull’app YouTube Kids né su quella standard disponibile ovunque – scoppia una nuova grana. Che stavolta mette sul banco degli imputati la piattaforma di condivisione video non tanto sotto il profilo dei contenuti quanto su quello, caldissimo visto l’affare Cambridge Analytica che ha travolto Facebook, della trasparenza e la riservatezza dei dati personali. In questo caso, appunto, degli under 13.
 
Una coalizione di 23 associazioni per l’infanzia, dei consumatori e di attivisti ha citato YouTube alla Federal Trade Commission americana con una tesi molto chiara e molto grave: Google violerebbe le leggi sulla protezione dei minori raccogliendo informazioni personali dei piccoli e utilizzandole per confezionare e indirizzare loro pubblicità mirate. Dell’agguerrito gruppone fanno parte la ben nota Campaign for a Commercial-Free Childhood, il Center for Digital Democracy e 21 altre organizzazioni. Il punto è molto importante per diverse ragioni. La prima è che queste associazioni accusano Big G di sapere benissimo che YouTube è utilizzata da bambini sotto i 13 anni nonostante le condizioni d’uso sostengano che il servizio non dovrebbe essere dedicato a loro. Ma di non fare nulla per evitarlo e di non risparmiare di dragare anche i loro dati personali.
 
Così, navigando su questa pericolosa ambiguità di fondo – le regole dicono che gli under 13 non potrebbero usare YouTube ma nella realtà ci passano una montagna di tempo, così come accade praticamente su tutti i social network – Google raccoglie informazioni personali come localizzazione, dispositivi utilizzati, numeri di telefono e li usa per tracciare i baby utenti in giro per il web e per altri servizi. Profilandoli come fossero utenti adulti. Senza ottenere in modo preventivo, dicono le associazioni, il consenso richiesto dal Coppa, il Children’s Online Privacy Protection Act approvato nel 1998 dal Congresso americano ed entrato in vigore nel 2000. Ma, come si comprende, è in corso un cortociruito: come potrebbe mai Google chiedere il consenso ai genitori per un servizio che, formalmente, è vietato ai minori di 13 anni?
 
Si riapre insomma l’enorme problema degli utenti sotto quella soglia (arbitraria, non c’è alcuna indagine pedagogica alle spalle ma solo una legge di vent’anni fa) che a breve assumerà una sua concretezza anche nel Vecchio continente con l’entrata in vigore del nuovo regolamento generale europeo per la protezione dei dati personali. All’articolo 8 prevede appunto la soglia di 16 anni per l’accesso a questo genere di piattaforme: sotto, occorrerà il consenso dei genitori con documenti o altri sistemi di identificazione. Tuttavia l’atteso provvedimento di Bruxelles lascia le porte aperte ai singoli Paesi per abbassare quel limite a 13 anni. Guarda caso armonizzandolo con quello statunitense.  
  YouTube, come difendere i bambini dai contenuti shock Navigazione per la galleria fotografica 1 di 11 Immagine Precedente Immagine Successiva Slideshow Ecco perché, fino all’entrata in vigore del cosiddetto Gdpr (General Data Protection Regulation) europeo ma anche oltre, ciò che succede oltreoceano è fondamentale anche per la sicurezza dei bambini alle prese con queste piattaforme in tutti i mercati in cui sono presenti: la famigerata soglia del 13 anni è infatti frutto del Coppa e, spesso in un Far West privo di regole, i colossi della rete non hanno fatto altro che applicarla anche altrove. In punto di diritto senza alcun tipo di valore.
 
Le organizzazioni per la difesa dell’infanzia chiedono alla Ftc di investigare – proprio ciò che dovrà fare l’Antitrust italiana ma sul caso Facebook – e di sanzionare Google per le violazioni che avrebbe compiuto: "Per anni Google ha abdicato alle sue responsabilità verso i bambini e le famiglie specificando semplicemente che YouTube, un sito pieno di cartoni popolari, ninnenanne e pubblicità di giocattoli, non sia destinato ai minori di 13 anni" ha spiegato Josh Golin, direttore esecutivo del Ccfc. Al contrario, questa la tesi dell’accusa, “Google fa profitti immensi distribuendo pubblicità ai bambini" quando invece dovrebbe rispettare le norme previste dal Coppa. "Adesso è il momento – ha tuonato Golin – che la commissione chieda conto a Google della sua raccolta illegale di dati e delle sue pratiche pubblicitarie".
 
Per i gruppi sul piede di guerra YouTube è la piattaforma più popolare fra i bambini, usata dall’80% di quelli dai 6 ai 12 anni. Come noto, Google ha anche un’app dedicata – YouTube Kids, disponibile anche in Italia ma non in italiano – distribuita dal 2015. Progettata per filtrare i contenuti in modo ibrido (un po’ con algoritmi e un po’ con uno staff in carne e ossa) e selezionare sia i contenuti che le pubblicità destinate ai più piccoli. Negli ultimi tempi YouTube dice di aver arricchito il team di moderatori dedicato al controllo di certi tipi di video, fra cui quelli destinati ai bambini, ma la questione che le associazioni contestano riguarda appunto la contraddizione di base di cui si parlava prima: “Google ha agito in modo ambiguo dichiarando in modo falso che YouTube è solo per gli over 13 mentre raccoglieva i giovanissimi in un parco giochi digitale pieno di pubblicità. Proprio come Facebook, Google ha indirizzato le sue enormi risorse verso i profitti e non sulla protezione della privacy” ha spiegato Jeff Chester del Center for Digital Democracy.
 
In fondo fra i canali più popolari di YouTube ce ne sono alcuni palesemente indirizzati ai bambini con milioni di iscritti come LittleBabyBum che ne vanta 14,6 milioni e 14 miliardi di visualizzazioni. Senza contare che se ne trovano ancora di totalmente inadeguati: canali che ospitano cartoni taroccati e dai contenuti inadatti ai bambini che sfruttano fuori da ogni diritto personaggi celebri (ma sfigurandone le fattezze) al solo fine di raccogliere traffico e visualizzazioni. Non bastasse, secondo l’accusa la piattaforma per la pubblicità includerebbe anche una selezione di canali etichettati come “parenting and family”: per piazzare la pubblicità su quei video gli inserzionisti pagherebbero di più. Segno, ancora una volta, che si sa bene chi circola sulla propria piattaforma – anche perché l’azienda lo ha di fatto ammesso con una serie di mosse – ma troppo poco si fa per “bonificarla” dall’utenza più giovane.
 
Tornando ai contenuti pare infine che YouTube stia pensando di rilasciare una versione della sua applicazione per i più piccoli gestita in modo manuale. Facendo cioè a meno del lavoro di filtro e selezione automatico realizzato tramite algoritmi ad hoc che troppi inghippi ha prodotto fra Peppa Pig assetate di sangue e Minnie in bikini che si contendono Topolini palestrati. Questo per evitare che in quella piattaforma finiscano video inappropriati: ad occuparsene dovrebbe essere un team di curatori reali. Strategia evidentemente impossibile da condurre nella versione standard del sito e dell’app.
 
"Non abbiamo ancora ricevuto la notifica dell’esposto – ha spiegato una portavoce di YouTube – ma proteggere i bambini e le famiglie è sempre stata per noi una priorità assoluta. Leggeremo le accuse in profondità e valuteremo se ci sono cose che possiamo fare per migliorare. Ma YouTube non è per i bambini e abbiamo investito risorse significative per creare l’app YouTube Kids, un’alternativa specificamente pensata per i più piccoli".