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 2018  aprile 09 Lunedì calendario

Case per minori, così le Regioni sprecano i soldi

Fanno parte dei «minori fuori famiglia», in sigla Mff. Sono minorenni, ma anche neomaggiorenni, che per motivi diversi finiscono in strutture residenziali: case-famiglia, comunità socioeducative o sociosanitarie. Di loro ci si ricorda quando qualche fatto di cronaca li coinvolge; quando, magari dopo essersi allontanati, finiscono vittima di brutali aggressioni.
O se emergono inchieste per presunti abusi, come accaduto pochi giorni fa a Trieste, dove il presidente della comunità La Fonte è stato arrestato con l’accusa di maltrattamenti. Mentre a dicembre c’era stata la condanna definitiva e la carcerazione del fondatore della coop agricola Il Forteto per una brutta storia che si trascina da anni.
Sorveglianza frammentata
Ma cosa sappiamo di questi minori e delle specifiche strutture che li accolgono? Chi deve vigilare? Certo, la maggioranza di queste comunità svolge un lavoro tanto prezioso quanto delicato. Il problema è che i controlli appaiono inadeguati, frammentati su soggetti diversi (Regione, Comune, Asl, Tribunali), offuscati dal rischio di conflitti d’interesse. Mancano dati precisi e univoci. Ad esempio: non c’è una banca dati sui minori in comunità. Non sappiamo quanto ci restano, probabilmente più di quanto dovrebbero.
Sappiamo che sono circa 23 mila (in crescita, così come il numero delle strutture); che meno di un terzo di quelli dimessi rientrano in famiglia e che circa il 28%sono dirottati in altre strutture, salvo poi essere abbandonati a sé stessi al compimento della maggiore età, malgrado le loro peculiari condizioni di vulnerabilità. La maggioranza degli ospiti, poi, presenta seri fattori di rischio per lo sviluppo armonico della personalità. Delle comunità sappiamo ancora meno, e non c’è nemmeno una loro classificazione omogenea. Eppure alcune chiedono anche rette molto costose, per fornire prestazioni su cui potrebbero non avere né le competenze né le autorizzazioni.
Autorizzazioni e rette
La tortuosa vicenda del Piccolo Carro, cooperativa che gestisce alcune strutture per minori tra Perugia, Bettona, Assisi, evidenzia molte di queste contraddizioni. A febbraio i giudici del Riesame hanno confermato il maxi sequestro da più di 6 milioni di euro per la cooperativa umbra, che era stato disposto dalla Procura di Perugia nel dicembre 2017. L’accusa degli inquirenti è di truffa aggravata e frode ai danni dello Stato. Secondo la Procura, il Piccolo Carro non avrebbe avuto le autorizzazioni per svolgere attività di tipo sanitario nei confronti dei minori, alcuni dei quali presentavano «patologie neuro/psichiche e psichiatriche». E per i quali la cooperativa incassava una somma cospicua, fino a 400 euro al giorno, ben superiore a quella prevista per una comunità solo socioeducativa, che si aggira sulle 120. Ma la vicenda giudiziaria è solo la punta di un iceberg: la storia della cooperativa è segnata anche da due tragedie. Nel settembre 2016 sono stati identificati i resti di Daniela Sanjuan, scomparsa a soli 13 anni nel 2003 e ritrovata morta dopo un decennio, nel 2013, nei boschi poco lontano dalla residenza. Nel giugno del 2016 riappare il corpo di Sara Bosco, 16 anni, fuggita dalla comunità e morta per overdose a Roma.
Trattamenti sanitari
A gennaio il coordinamento di associazioni di genitori Colibrì ha presentato una denuncia alla Procura di Perugia chiedendo di verificare se fossero state predisposte tutte le misure necessarie per garantire l’incolumità di pazienti con esigenze sanitarie, come Daniela. E chiedendo anche di accertare le responsabilità degli amministratori locali. Il Piccolo Carro aveva o no i requisiti per svolgere quelle attività? E se non li aveva, perché ha continuato a operare per anni?I gestori della coop – che non hanno risposto a una richiesta di contatto de La Stampa – hanno sempre respinto le accuse, sostenendo piuttosto che esista un vuoto legislativo sull’accoglienza in comunità socio-educative di minori sottoposti a terapia sanitaria. E che la distinzione tra attività socioassistenziali e sanitarie sia molto labile. Di sicuro c’è una sentenza del Tar nel maggio 2017, secondo la quale la coop, sebbene fosse comprovata la presenza di ospiti con disabilità, non aveva autorizzazione sanitaria e non avrebbe potuto averla, dato che nemmeno era prevista dalla normativa regionale.
Ma chi mandava i minori con quelle problematiche? «I Comuni umbri inviavano perlopiù ragazzi con problemi socioeducativi; erano le Asl di altre Regioni a mandare qua dei minori con esigenza di trattamento sanitario, e non so poi come li seguissero», spiega Maria Grazia Carbonari, consigliera regionale del Movimento 5 Stelle che da tempo vuole fare chiarezza su molti aspetti della vicenda. In effetti l’invio di minori con problematiche sanitarie è documentato dagli stessi documenti di varie Asl, visionati da La Stampa. Per fare alcuni esempi: nell’aprile 2017 l’Asl Cosenza prorogava la permanenza di una minore disabile presso il Piccolo Carro per 400 euro al giorno. A dicembre 2016 anche la Asl 1 Abruzzo pagava il Piccolo Carro per un minore in compartecipazione (comorbidità) con il Sert, retta 400 euro al giorno più Iva. Oppure la Asl Ba di Bari, nell’autunno 2016, liquidava fatture alla comunità per pazienti inviati dal Dipartimento di salute mentale. Nel 2015 l’Asl 12 di Viareggio prorogava l’inserimento di un disabile per 350 euro al giorno più Iva; e la Asl Cagliari prorogava la permanenza di una minore, entrata nel 2012, in virtù dei suoi disturbi specifici, per 380 euro al giorno. Nel frattempo sulla cooperativa umbra Piccolo Carro e dintorni si accumulavano provvedimenti o domande.
L’analisi del gruppo tecnico
Un’interrogazione regionale nel luglio 2017, così come un’interrogazione di una decina di parlamentari ai ministri della Salute e Giustizia. Ma già nel luglio 2015 un gruppo tecnico del Comune di Perugia scriveva che le strutture del Piccolo Carro presentavano «una spiccata connotazione sanitaria», «tale da travalicare le competenze attribuite»; valutazione ripresa e segnalata anche in un’altra interrogazione parlamentare dell’ottobre 2016.
Nel 2016 il Piccolo Carro è stato espulso da Confcooperative Umbria, con un procedimento iniziato nel 2015. «C’era un difetto contributivo, ma soprattutto c’erano valutazioni negative sul suo bilancio e lo stato patrimoniale non proprio da cooperativa sociale e non conformi al nostro codice etico», commenta il vicepresidente di Confcooperative Carlo Di Somma. Il Piccolo Carro nel 2016 aveva un fatturato di più di 5 milioni di euro, in crescita sul 2015 e sul 2014, con 3 milioni distribuiti al personale, in maggioranza educatori.
Il suo intero Consiglio d’amministrazione coincide con i membri di spicco della chiesa evangelica pentecostale A Braccia Aperte di Bastia Umbra, di cui i due coniugi alla guida della coop, la presidente Cristina Aristei e il vicepresidente Pietro Salerno, sono anche pastori. Ma anche la lista dei soci dipendenti ha destato varie richieste di chiarimento. Nel marzo 2017 la consigliera Carbonari chiedeva pubblicamente conto della presenza tra i soci di un pregiudicato in regime di semilibertà, condannato per omicidio; poco prima anche il Comune di Assisi aveva chiesto lumi della sua presenza al ministero di Giustizia.
Pochi dati e controlli
In generale, che ci sia un problema di controllo sulle comunità lo ammette il documento conclusivo dell’indagine conoscitiva della Commissione parlamentare sull’infanzia e l’adolescenza, approvato a gennaio. I dati, scrive, sono lacunosi e disomogenei. Non c’è una classificazione univoca delle comunità.
Il livello di assistenza sanitaria erogato nelle strutture per minori è basso o assente. Non si sa quanto tempo ci restino i minori. E comunque chi compie la maggiore età rischia di trovarsi solo e abbandonato. «Non abbiamo nemmeno una mappatura delle strutture che operano con i minori», evidenziano Loredana Greco e Roberto Castelli, di Colibrì. Quanto all’efficacia dei controlli, c’è chi è molto scettico, come Francesco Morcavallo, un passato da giudice al tribunale dei minorenni di Bologna, oggi avvocato. «I controlli non sono fatti quasi mai», commenta. «Possono farli le procure minorili, i garanti per l’infanzia, i membri di commissioni parlamentari e i consiglieri regionali, e in genere sono eseguiti quando emergono casi evidenti». Sulla carta, le procure minorili devono disporre ispezioni ogni 6 mesi. Nel 2017, secondo dati del ministero di Giustizia chiesti da La Stampa, ci sono state 3.217 ispezioni in queste strutture (che secondo i dati del Garante sono 3.352). Dunque meno di una all’anno per comunità. Poi bisognerebbe anche capire il livello di profondità delle verifiche. Secondo Morcavallo, ad esempio, «queste strutture non sono tenute nemmeno a giustificare le spese». In quanto alle decisioni sull’ulteriore permanenza di un minore in una comunità, «spesso sono prese da un giudice che valuta sulla base delle relazioni fatte dalla stessa». Eppure, sulla carta, le regole sono rigorose.
Per legge le strutture di accoglienza inviano ogni sei mesi informazioni alle procure minorili. Molteplici le ragioni che portano all’ingresso in comunità: difficoltà educative della famiglia di origine, abusi o maltrattamenti, casi entrati nel circuito penale, condizioni di particolare fragilità. Secondo i tribunali per i minorenni, sono 3.352 le comunità sparse su tutto il territorio nazionale che ospitano ragazzi che vivono fuori dalla propria famiglia. Si tratta in prevalenza di maschi, con un’ età tra i 14 e i 17 anni. Uno su due è straniero. Il numero di ospiti per struttura varia dai 3,7 di Piemonte e Valle d’Aosta ai 13,6 di Bolzano e ai 12, 4 dell’Umbria. 6 collocamenti su 10 avvengono su provvedimento dell’autorità giudiziaria. Appena il 14% sono consensuali.
Conflitti d’interesse?
Altro tema – sollevato sia dalla relazione della Commissione parlamentare sia da addetti ai lavori come Morcavallo – è il rischio di conflitti d’interesse. Cristina Franceschini, avvocato e fondatrice della onlus Finalmente Liberi, ha denunciato da tempo proprio questo problema, segnalando l’alto numero di giudici minorili onorari – 211 nel 2015 – che avevano rapporti economici o professionali con le comunità.
«Ho rilevato varie incongruenze a livello di gestione del denaro di alcune di queste comunità ad alta retta, ma anche il fatto che alcuni giudici onorari del tribunale dei minorenni fossero gestori di comunità o avessero rapporti professionali con le stesse», osserva. Una circolare di fine 2015 del Csm ha poi vietato ai giudici onorari, e a loro parenti stretti, di ricoprire cariche in queste strutture. È stata attuata? «Di fatto è stata operativa per le nuove nomine solo a partire dal 2017», prosegue Franceschini. «Ma in dettaglio non lo sappiamo, il controllo è demandato al presidente del tribunale dei minorenni che riceve queste candidature e che dovrebbe fare dei controlli incrociati. In pratica si basa su un’autocertificazione. Ritengo che di casi di conflitto ce ne siano ancora».