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 2018  aprile 07 Sabato calendario

Qe verso l’addio, il conto per le Pmi. Ogni punto percentuale di rialzo tassi costerà ai privati fino a 2,8 miliardi di interessi in più

Dimenticate l’insidia tassi: è la crescita economica che conta quando si guarda alla sostenibilità del debito pubblico italiano. La Banca centrale europea inizierà infatti inevitabilmente a limitare prima, e a ritirare poi, quella liquidità che ha immesso nel sistema finanziario negli ultimi anni per allontanare il rischio deflazione, ma a meno di un imprevedibile shock esterno che possa di nuovo frenare l’attuale ripresa in corso, la situazione dei conti del Tesoro non rischia certo una deriva. Lo si ricava in sostanza dalla ricerca «La fine del Quantitative Easing in Europa e impatti sull’Italia» curata da The European House – Ambrosetti e presentata oggi durante il workshop in corso a Cernobbio. Uno studio nel quale si fanno i conti in tasca anche al settore privato, cioè famiglie e imprese, che potrebbe subire ogni anno un aggravio della spesa per interessi fino a 2,8 miliardi di euro per ogni punto percentuale di rialzo dei tassi.
In Italia si è del resto lavorato bene in questi ultimi anni, riuscendo ad allungare di nuovo fino quasi a 7 anni la scadenza media residua dei titoli pubblici presenti su mercato, rendendo così meno vulnerabili le casse dello Stato. «L’attuale maturity del debito italiano – conferma Massimiliano Sartori, uno dei membri del gruppo di Lavoro Teh-Ambrosetti e fra i curatori del rapporto – rappresenta un importante elemento che consente una sua gestione, nel breve-medio periodo, anche in presenza di shock al rialzo dei tassi d’interesse». A meno di cambiamenti significativi rispetto allo scenario corrente, il tasso medio all’emissione di BTp e soci(pari allo 0,68% alla fine dello scorso anno) è infatti destinato a mantenersi inferiore al costo medio attuale dello stock di titoli (2,77%) almeno fino al 2020-2021, circostanza che garantirebbe quindi un costo degli interessi sul Pil decrescente per i prossimi 2-3 anni.
L’analisi Teh-Ambrosetti si basa su 5 differenti scenari futuri, che non rappresentano previsioni ma semplicemente simulazioni su ciò che potrebbe accadere e sui suoi riflessi sul debito pubblico italiano. Quest’ultimo potrebbe dunque scendere nel 2023 addirittura fino al 112,7% del Pil rispetto all’attuale 129,8% nel caso in cui fosse possibile raggiungere gli obiettivi previsti dal Def e la dinamica futura dei tassi europei dovesse seguire quella finora tracciata dagli Stati Uniti, che sono più avanti nel ciclo economico e in quello monetario e che procederanno verosimilmente a ulteriori graduali aumenti del costo del denaro come confermato ieri dal nuovo governatore della Federal Reserve, Jerome Powell.
Pur non riducendosi in misura simile, il debito italiano resterebbe comunque sotto controllo anche se lo scenario appena delineato fosse poi seguito da una recessione nel 2021 (con valori rispetto al Pil a fine 2023 previsti fra il 120% e il 130% a seconda dei differenti livelli di avanzo primario che il nostro Governo è in grado di conseguire) oppure nel caso in cui si verificassero le ipotesi economiche del «Consenso Ambrosetti Club» basato su input raccolti sulla crescita del Pil, sul tasso di inflazione, sull’evoluzione della curva dei rendimenti a scadenza e sull’avanzo primario (123,9% o 125,7% a seconda della differente velocità con cui potranno risalire i tassi).
La situazione rischierebbe invece di diventare critica per l’Italia se si dovesse verificare uno «shock esterno sulla crescita», ovvero una recessione nel corso 2019 che potrebbe riportare il debito in area 134-145% del Pil. O addirittura proiettarlo in orbita fino a sfiorare il 150% se si aggiungessero ripercussioni sullo spread fra BTp e Bund simili a quelle del periodo 2011-2012 perché «i timori circa la permanenza del nostro Paese nell’Eurozona produrrebbero un innalzamento del premio per il rischio sui titoli di debito italiani», spiega Sartori.
Nel complesso, la variabile tassi di interesse non pare insomma così critica nell’arco dei prossimi 2-3 anni secondo il rapporto Teh-Ambrosetti, ed è piuttosto la crescita economica il principale driver della sostenibilità. «Anche per questo motivo – sottolinea Sartori – l’avanzo primario e il rapporto deficit/Pil sono elementi gli elementi chiave da tenere d’occhio se si vuole creare un cuscinetto di risorse indispensabile a far fronte ai potenziali rallentamenti o inversioni del ciclo economico», mentre nel malaugurato caso di shock recessivo globale a stretto giro di posta toccherà ancora verosimilmente alla Bce il compito di contenere gli effetti «con manovre di politica monetaria straordinaria indispensabili a limitare gli impatti sulla sostenibilità del debito».
Non di sole finanze pubbliche si occupa lo studio presentato oggi a Cernobbio: una parte rilevante riguarda infatti il potenziale impatto che un rialzo generalizzato dei tassi di mercato eserciterebbe su famiglie e imprese, alle prese con prestiti che ammontano a 1.771 miliardi di euro, che al momento possono contare su tassi ai minimi storici (rispettivamente 1,89% e 1,65% per le due categorie), hanno scadenze medie comprese fra 5-7 anni per le famiglie e 3-5 anni per le imprese e sono a tasso fisso per il 65% per le famiglie e per una quota compresa fra il 35% e il 50% per le imprese.
«Se per ogni punto percentuale di aumento dei tassi si producesse un aumento di pari dimensione del costo medio di finanziamento per imprese e cittadini – avverte Sartori – si avrebbe ogni anno un costo aggiuntivo di 1,8-2,8 miliardi di euro sotto forma di incremento di interessi passivi». Un aggravio certo significativo, ma che potrebbe essere gestibile da parte dei privati se compensato dagli effetti benefici di una ripresa economica: ancora una volta è la crescita, più che il livello dei tassi, la variabile che fa la differenza, soprattutto per l’Italia.