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 2018  aprile 08 Domenica calendario

Il Cupolone di Nervi

anni di degrado, proprio l’Italia avvia i progetti di recuperoC’era una volta in Sudafrica. Anzi, la volta c’è ancora, ma il suo è futuro incerto. Una volta in cemento armato, enorme, disegnata negli anni Settanta dal celebre ingegnere e architetto italiano Pier Luigi Nervi. A quel tempo era la volta a crociera più grande al mondo, costruita per coprire la sala principale del Good Hope Centre di Cape Town, edificio polifunzionale ai margini del District Six, quartiere simbolo dell’apartheid.
È il 1964 quando Nervi riceve una lettera dal municipio della città sudafricana. La sua fama, acquisita dagli anni Trenta in poi grazie a opere straordinarie – lo Stadio di Firenze, il Palazzo dello Sport di Roma, il Palazzo del Lavoro di Torino, eccetera – è alle stelle. Per intenderci, negli anni Sessanta Nervi (1891-1979) era famoso come lo è oggi Renzo Piano, e la sua firma richiesta in tutto il mondo.
Se sono note le opere da lui progettate in America, dalla Torre della Borsa di Montréal alla Cattedrale di San Francisco, meno evidente è la sua attività nel continente africano. Ma altrettanto interessante: si contano oltre 60 progetti o consulenze tra il Maghreb e il Capo di Buona Speranza, che nel loro insieme – anche se pochi andarono in porto – compongono un ritratto delle relazioni architettoniche e geo-politiche del nostro paese con l’Africa postcoloniale. Nervi fu chiamato nella Libia pre-Gheddafi e nella Costa d’Avorio del Presidente Houphouët-Boigny, così come in Marocco, Algeria, Tanzania, Kenya, Congo, Nigeria, Etiopia.
E infine in Sudafrica. Fu il potente ingegnere-capo della città di Cape Town, suo grande fan, a proporgli nel 1964 di costruire un complesso multifunzionale per esposizioni e sport indoor. Nervi accettò, ovviamente, e fece la sua proposta: una sala quadrata di 80x80 metri, sovrastata da una poderosa volta in cemento, appoggiata in soli quattro punti per consentire la massima flessibilità. In pratica una gigantesca cupola, a conferma della sua fama di Michelangelo dei tempi moderni.
L’approvazione arrivò negli anni Settanta, quando il Grande Ingegnere era ormai anziano. Per questo, il progetto fu seguito dal figlio Antonio. Formidabile il cantiere: la cupola da record fu scomposta in 892 pezzi triangolari da costruire a terra e poi montare assieme, come un enorme puzzle o mosaico all’ombra della Table Mountain, la piatta montagna che sovrasta la città. Lo stesso procedimento usato a Roma per il Palazzetto dello Sport, piccolo capolavoro che meriterebbe un po’ più di cura da parte delle nostre istituzioni.
C’è di più. Nel 1977, quando aprì al pubblico, il Good Hope Centre acquisì un ulteriore valore simbolico. All’epoca vigeva la cosiddetta «theatre apartheid», cioè la segregazione razziale applicata anche ai luoghi dell’intrattenimento. Nel 1971, ad esempio, il Nico Malan Theatre di Cape Town fu inaugurato escludendo i non-whites e scatenando così proteste locali e diplomatiche. L’apertura dell’edificio di Nervi, sei anni più tardi, diede l’occasione per rilanciare il dibattito, con il desiderio di un luogo multirace: non solo multifunzionale ma anche multietnico.
Da notare è che l’anno prima dell’inaugurazione c’era stata la tragica rivolta della township di Soweto, vicino a Johannesburg, che la polizia represse uccidendo centinaia di giovani. L’indignazione del mondo fu grande. La liberazione di Mandela era lontana; tuttavia si era innescato un processo che molto lentamente avrebbe portato – quindici anni più tardi – alla caduta del regime segregazionista.
Ma qui tutto ha due facce: il Good Hope Centre fu eretto sull’area del vecchio mercato del District Six, il quartiere reo di essere cosmopolita e che dunque l’apartheid decise di radere al suolo, deportandone gli abitanti. Parlando con i vecchi residenti, l’edificio ricorda allora anche la violenza dell’imposizione governativa.
E oggi? Dopo 40 anni di onorato servizio, nel 2016 il Good Hope Centre è stato chiuso al pubblico e affittato come studio cinematografico. Pochi mesi dopo, sotto alla grande volta nerviana è stata costruita la replica della tomba del faraone egizio Tutankhamon – per una serie televisiva britannica – creando un paradossale incontro storico e architettonico.
Le ragioni della chiusura sono economiche: i costi di gestione e ristrutturazione sono alti, gli introiti modesti. La creazione nel 2003 di un centro congressi più moderno ha ridotto l’appeal dell’edificio di Nervi. E difatti, negli ultimi anni sono state soprattutto le organizzazioni provenienti dalle aree più disagiate della città a utilizzarne gli spazi. L’area circostante è degradata, come dimostra il filo spinato che oggi cinge il perimetro e gli scultorei pilastri per evitare intrusioni, deturpandone l’immagine. Entrando – dopo molte richieste agli enti locali – all’interno, lo spazio è ancora impressionante: due archi diagonali reggono una trama infinita di cemento che sembra volare. Molti sarebbero però i lavori da fare.
Nel 2016 la chiusura al pubblico aveva scatenato le proteste: perché privare la comunità di un edificio che dovrebbe essere pubblico per natura? Il bene pubblico coincide con il suo rendiconto finanziario? A ciò si aggiunge il timore per la salvaguardia dell’architettura.
Per fortuna oggi i riflettori si sono riaccesi sulla questione, grazie anche all’attenzione del Console italiano a Cape Town Alfonso Tagliaferri, che ha promosso una ricerca storica a cura di chi scrive e di Micaela Antonucci. I risultati di tale ricerca – condotta con l’aiuto del MAXXI di Roma – sono stati esposti in una conferenza allo Zeitz MOCAA di Cape Town (il nuovo museo d’arte contemporanea africana, aperto lo scorso settembre) e condivisi presso l’Università locale, in modo da stimolare proposte lungimiranti. Già nel 2013 si svolse un workshop per immaginare futuri alternativi. In tutte le ipotesi, i concetti di apertura e inclusione erano alla base. Ma sono due termini su cui il Sudafrica deve ancora lavorare molto, come dimostra il filo spinato che guarnisce molti pezzi di città. E così, la grande volta appare spenta, utilizzata in maniera intermittente, un enorme guscio vuoto. La buona speranza è che da capolavoro del made in Italy, il Good Hope Centre non diventi una tomba.