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 2018  aprile 09 Lunedì calendario

Player tracking, così l’Nba ha rivoluzionato gli schemi

Il 2 gennaio scorso, quando Manu Ginobili ha segnato per i San Antonio Spurs la “tripla invisibile”, il pubblico del Madison Square Garden, casa dei New York Knicks, ha fissato gli schermi per osservare quel che agli arbitri era sfuggito: la palla era andata a canestro. Quel tiro, rimandato subito in tutto il mondo da diverse angolazioni, in tv e attraverso i social, era in realtà un passaggio sbagliato: meglio, un alley-oop così perfetto da andare a segno da solo. Spettacolo nello spettacolo del teatro Nba, esaltato dagli scambi in diretta con i tifosi e dalle tantissime telecamere a presidio del palcoscenico.
Sopra le teste del pubblico, più in alto dei megaschermi, altre telecamere speciali tracciano invece il percorso della qualità del gioco, i movimenti degli atleti e della palla, trasformandoli in dati preziosi. È la computer vision: una miniera di informazioni rese disponibili a tutte le franchigie della National Basketball Association.
La lega professionistica americana ha implementato il sistema nel 2013 in ogni “palazzetto”, siglando un accordo quadriennale con SportVu, startup creata da un fisico e da un ingegnere biomedico israeliani e poi acquisita da Stats, uno dei leader mondiali nella data technology.
I primi clienti Nba sono stati i Dallas Mavericks, che nella stagione 2010/2011, dopo aver equipaggiato l’arena con il sistema SportVu, hanno vinto il primo titolo della loro storia. Ovvio che il proprietario della squadra, Mark Cuban, abbia provato in tutti i modi ad avere l’esclusiva del prodotto. Che invece è stato poi adottato da altre franchigie (Spurs, Thunder, Knicks, Celtics...) e diventato così diffuso da spingere l’intera Associazione a muoversi («la prima a fare player tracking», come ripete orgoglioso Steve Hellmuth, vice presidente esecutivo, Media Operations & Technology di Nba).
L’uso di indicatori un tempo impossibili da quantificare, unito all’analisi dell’intelligenza artificiale, ha rivoluzionato il lavoro di coach e cestisti, e quindi il modo di giocare delle squadre, inducendole per esempio a privilegiare – oltre ai tiri al ferro – quelli da tre punti (smarcati): anche se si sbaglia, ci sono più probabilità di prendere il rimbalzo rispetto a un tiro dalla media distanza. Golden State Warriors, San Antonio Spurs e Cleveland Cavaliers, protagoniste delle ultime stagioni, hanno schemi di gioco molto “data-driven”.
Tutte le franchigie Nba ricevono un programma di lettura delle informazioni di gioco, anche se ognuna ha poi un proprio sistema interno (e riservato) di analisi approfondita. Un sistema che si integra con altri strumenti: i Warriors – per restare ai campioni in carica – vincono anche grazie all’uso dei dispositivi Catapult indossati durante gli allenamenti o quelli Omegawave per misurare lo stato psicofisico e prevenire così gli infortuni.
Il partner del player-tracking della lega è intanto cambiato. Chiusa l’esperienza con Stats, l’Nba ha firmato un contratto con Second Spectrum, altra azienda fondata da informatici e professori di intelligenza artificiale, che consente di generare indicazioni ancora più dettagliate, arrivando a registrare (motion capture) i movimenti del corpo durante l’azione. E che tra gli investitori conta, non a caso, il proprietario dei Los Angeles Clippers, Steve Ballmer (ex ceo di Microsoft), il socio dei Boston Celtics, Steve Pagliuca, e quello dei Golden State Warriors, Mark Stevens.