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 2018  aprile 07 Sabato calendario

La haute couture sul confine tra inferno e paradiso

The pope wears Prada». Era stato con il riferimento a uno dei film sulla moda più popolari, Il diavolo veste Prada, che nel 2005 il settimanale statunitense Newsweek aveva introdotto un tema piuttosto insolito: la cura per le proprie mise di Benedetto XVI. La passione ben documentata del pontefice, sia per l’uso di paramenti tradizionali che per gli accessori più moderni (come gli occhiali da sole di Gucci), gli era valsa due anni dopo una menzione sul mensile Esquire. Non s’era mai visto un simile accostamento tra mondi tanto lontani.
L’importanza di certi momenti non è sfuggita ad Andrew Bolton, curatore responsabile del Costume institute del Met Museum di New York, e infatti è da qui che Bolton parte per illustrare la prossima mostra a tema stilistico – un evento che attira ogni anno quasi un milione di visitatori – dedicata al rapporto tra moda e immaginario cattolico. Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination, dal 10 maggio all’8 ottobre, esplora i legami tra costume e dottrina, creatività e arte sacra. «L’influenza della religione sui più grandi artisti è innegabile», ragiona Bolton, raggiunto telefonicamente, «e credo che con gli stilisti sia accaduto un fenomeno simile, finora sottovalutato. Penso sia il momento di esaminarlo da vicino». La scelta di concentrarsi sulla chiesa cattolica è arrivata in corso d’opera, quando è diventato evidente il suo ruolo chiave nella moda. «Anni fa avevo iniziato a lavorare su islamismo, induismo, buddismo, ebraismo e cattolicesimo. Ma la schiacciante maggioranza di materiali e riferimenti legati a quest’ultimo era troppo evidente per essere ignorata». Scelta condivisibile, vista la quantità (e la qualità) delle variazioni sul tema: dall’ispirazione ai paramenti sacri (l’abito di Valentino che richiama la cappa magna cardinalizia) alle creazioni su misura (la casula di Jean-Charles de Castelbajac per papa Giovanni Paolo II in occasione della Giornata della Gioventù del 1997), fino ai veri e propri atti di fede (il manto di Yves Saint Laurent per la statua della Vergine del Rocìo).
Una corrispondenza continua dunque, che nasce anche dalla quotidianità. «Da piccoli la vita dei miei fratelli e la mia erano scandite dalle feste religiose», ricorda Donatella Versace, sponsor della mostra (sarà anche l’ospite del gala d’inaugurazione assieme ad Amal Clooney, Rihanna e ovviamente Anna Wintour, cui il Costume Institute è dedicato), e tra i suoi più prominenti protagonisti. «Al sud era inevitabile, e ciò non poteva che filtrare nella moda. Gianni però fu sommerso dalle critiche i primi tempi: la religione allora era considerata materia intoccabile». Vero. Fu tanto lo scandalo alle sue prime croci e ai ricami ripresi dai mosaici della Basilica di San Vitale a Ravenna, ma lo stilista perseverò, integrando quei simboli nel suo lessico. «Sono immagini potenti perché rappresentano ciò che non comprendiamo, ma che accettiamo. La loro popolarità deriva anche dalla libertà d’interpretazione che offrono. Per questo credo sia importante la partecipazione del Vaticano: la Chiesa si sta aprendo al mondo attraverso un linguaggio non più solo liturgico».
La partecipazione di cui parla la stilista si è concretizzata in un gesto senza precedenti: 40 pezzi, tra paramenti e arredi creati dalla metà del 1800 ai primi 2000, prestati al MET. Sinora non erano mai usciti dalla sacrestia della Cappella Sistina: ci sono voluti tre anni, ma la disponibilità della Santa Sede è stata assoluta, dice Bolton, che rileva pure come il vero problema sia stato solo capire a chi chiederli. La burocrazia è una rogna universale, a quanto pare. L’unica condizione posta dal Vaticano è stata il separarli dagli altri pezzi esposti: una richiesta che, va detto, rafforza la contrapposizione tra originali e interpretazioni, segnando ancora meglio il percorso. In una sorta di pellegrinaggio si parte così dal confronto con l’arte bizantina, per passare prima al paragone con riti e gerarchie e poi al culto della Vergine e alla figura femminile nella religione. Si termina con santi e angeli (un abito di Roberto Capucci è dotato letteralmente di ali). Viene da chiedersi però se il MET abbia previsto eventuali polemiche sul tema scelto: in America è ancora vivo lo sdegno per gli scandali – i casi di pedofilia messi a tacere dalle diocesi – emersi negli ultimi anni. Bolton ne è consapevole, ed è anche su questo che, in un certo senso, ha plasmato la mostra. «Certo, alla fine tutto sta a chi guarda, ma lo scopo qui è raccontare come la moda si sia rapportata all’immenso patrimonio artistico legato alla fede cattolica: un mondo che, a mio parere, può e deve essere separato dalla cronaca».
Sulla connessione tra sacro e (stile) profano, a dargli manforte ci sono anche le parole del cardinale Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, grande sostenitore dell’iniziativa e autore della prefazione per il catalogo. Con notevole ironia per prima cosa ammette come, vestendosi per le celebrazioni con papa Francesco, gli venga sempre in mente la sfilata di moda cardinalizia in Roma di Fellini – e qui, il legame fra i due universi è chiaro –. Poi, usando le parole di Honoré de Balzac, spiega che “il vestito è espressione della società” anche nella Chiesa. L’abito nella sua dimensione simbolica appartiene alla cultura e la esprime, prosegue Ravasi: l’arte e la bellezza sono da secoli compagne della liturgia cristiana. Adesso è il momento di capire che a loro si è aggiunta anche la moda.