la Repubblica, 7 aprile 2018
Maria José Siri: «Il mio segreto per la Scala? Mai pensare alla Callas»
MILANO Ogni volta che Maria José Siri ha una recita, papà Rogelio, che abita in un piccolo paese dell’Uruguay, Tala, accende una candela propiziatoria.
«Lo farà anche quando debutterò alla Scala con Francesca da Rimini, nonostante il fuso orario», assicura il soprano, la Butterfly del 7 dicembre 2016. «Ormai è diventato il suo modo di augurarmi buona fortuna, anche se devo prendere un aereo. Ogni tanto gli raccomando di non incendiare la casa». La cantante, ormai italiana d’adozione da più di dieci anni (vive a Verona), sarà dal 15 aprile la protagonista dell’opera di Riccardo Zandonai, che manca da 39 anni da Milano. E l’ultima interprete fu nientemeno che Magda Olivero.
Paura del confronto?
«Ho molto rispetto per le grandi del passato, ma se dovessi pensare a chi ha calcato queste scene – da Callas a Tebaldi – me ne tornerei a casa. E in ogni caso preferisco non ascoltare le registrazioni: non solo per paura di sentirmi inadeguata, ma perché non voglio subire condizionamenti. Sarebbe facile imitare, adagiarsi sul già sentito.
A me piace fare a modo mio».
Chi è per lei Francesca? Soltanto una vittima della ragion di Stato?
«Lo è, viene ingannata dalla sua famiglia: pensa di sposare Paolo Malatesta, il Bello, mentre la destinano al fratello storpio Gianciotto. Ma è comunque una donna dalla forte personalità, che vive pienamente tutte le sue emozioni e sensazioni. Non può non cedere a Paolo perché la passione che li lega è troppo forte. Ma sa anche qual è il prezzo che deve pagare e sceglie consapevolmente di morire.
Nel quarto atto canta: “E così vada s’è pure il mio destino”».
Com’è il ruolo musicalmente?
«Al primo ascolto non mi ha entusiasmata. Allora ho deciso di studiare subito lo spartito.
E pian piano ho colto la grande bellezza della parte. Vocalmente, grazie anche alle indicazioni del direttore Fabio Luisi, cerco di usare la tavolozza completa dei colori, in modo da rendere tutti gli stati d’animo del personaggio: è tenerissima con la sorella Samaritana, accesa da una bruciante passione per Paolo, ma prova anche paura e ribrezzo per la malvagità degli uomini, soprattutto per Malatestino, che rivelerà al fratello maggiore Gianciotto i suoi incontri notturni segreti. E il regista David Pountney sottolinea soprattutto la sua sensibilità premonitrice: avverte sempre prima quello che le succederà».
E lei come renderà questo aspetto in scena?
«Col linguaggio del corpo: brividi, fremiti, silenzi».
L’opera contrappone il lirismo del mondo femminile alla brutalità di quello maschile. Un tema molto attuale, a giudicare dalla cronaca.
«Diciamo che non ricorre solo nell’opera, ma anche nella realtà di oggi: femminicidi, violenze, abusi, molestie. In scena c’è un gigantesco e candido mezzobusto femminile a seno nudo che simboleggia la purezza e la condizione indifesa delle donne, spesso violate».
Lei si è mai sentita vittima?
«Mi considero una donna libera di scegliere, come Francesca.
Mi sono trasferita in Italia per seguire il grande amore, anche se è finito male. Però, se tornassi indietro, rifarei le stesse cose».
Secondo lei “Francesca da Rimini” è un’opera verista, come l’ha classificata la tradizione?
«Trovo che sia più verista il ruolo di Maddalena di Coigny in Chénier. Il primo atto è tutto al femminile, e qui ci vuole una ricerca di grande purezza nei suoni, di pianissimi che sono quasi un sussurro. A volte mi stupisco di riuscire a farli.
La regia gioca sul contrasto col secondo atto, quello della battaglia che impazza, eliminando l’intervallo con un cambio di scena, e anche del mio costume, a vista».
Francesca viene da una lunga tradizione letteraria, dal V canto dell’Inferno di Dante alla tragedia di Gabriele D’Annunzio da cui Zandonai e il librettista Tito Ricordi prendono spunto. Li ha letti?
«Certamente, ma una cosa è leggere un testo, un’altra cantare. Ci sono momenti nell’opera che coinvolgono tutti i sensi e noi artisti dobbiamo riuscire a rendere ogni sfumatura».
Lei è stata tante volte Aida, ha cantato Puccini, “Andrea Chénier”. Qual è il suo ruolo preferito?
«Sicuramente Norma: ho debuttato due anni fa a Macerata. Ma ora sono innamorata di Francesca. In generale mi piace confrontarmi con ruoli nuovi piuttosto che cantare sempre le stesse opere. Alla sicurezza preferisco sfide e conoscenza».
Ha un rituale prima di salire sul palcoscenico?
«Sì, ogni volta che canto alla Scala, anche nelle prove, mi inginocchio e metto le mani ben appoggiate a terra. È un mio modo di chiedere permesso, un saluto, un omaggio, un portafortuna. È come se abbracciassi tutti i grandi personaggi che sono passati in teatro prima di me. Ormai lo sanno tutti, e nessuno più ci fa caso».