la Repubblica, 7 aprile 2018
«Io, il mago dei fumetti con l’anima da strega». Intervista a Simon Hanselmann
Le storie ultra-deprimenti di Simon Hanselmann (in Italia pubblicato da Coconino) contrastano con il tratto infantile e i colori caldi del disegno: sono al tempo stesso scioccanti e piene di poesia. Probabilmente è questo il motivo per cui, dopo essere state tradotte in tredici lingue, aver ricevuto diverse nomination per i premi più importanti quali l’Ignatz e l’Eisner Award, hanno scalato le classifiche di vendita dei paesi anglosassoni entrando anche nella top ten dei bestseller del New York Times. I personaggi sono «un gruppo di disgraziati che trova la realtà immensamente deprimente ed è finito in un assurdo pattern di escapismo e di edonismo: è come se gridassero nel buio». Ovvero: il ritratto dei giovani oggi a qualsiasi latitudine. Quelli di Hanselmann passano il tempo a strafarsi di droghe su un divano guardando la tv o giocando ai videogiochi. Ci provano anche a integrarsi (il personaggio di Howl, in italiano Gufo, cerca di adeguarsi: mette la cravatta, passa dal call center ad altri lavori alienanti) ma non ce la fanno.
Eppure Hanselmann, che adora vestirsi da donna – anzi da strega come Megg, la protagonista delle sue storie – non sembra passarsela male: «È perché disegno tutto il giorno». Nato a Launceston, Tasmania, vive a Seattle «con moglie, cane e quattro conigli pasticcioni».
Quanto c’è di biografico nelle storie di Megg, Mogg e Owl?
«Più o meno tutto, eccetto le cose troppo assurde o la roba illegale.
Mai fatto quelle cose. Quello viene tutto dal mio amico Karl. Potresti chiedere a lui, ma purtroppo... è morto, riposi in pace».
Come sono nati i suoi personaggi?
«Volevo fare qualche strip idiota su dei compagni di appartamento.
Era il 2008, in quel periodo disegnavo streghe. Le mie creature le avevo chiamate Megg, la strega, e Mogg, il gatto (come Meg and Mog, i due personaggi diventati classici per l’infanzia nati dalla fantasia di Helen Nicoll e Jan Pie?kowski, ndr). Non avrei mai potuto immaginare che qualche anno dopo le avrei trovate nella lista dei bestseller del New York Times».
Com’è crescere in Tasmania?
«È un paese rovinato da disoccupazione e droghe fin dagli anni ’70. La mia città attualmente è nella stretta di un’epidemia di “ice” (metanfetamina, ndr). Abbiamo avuto una piccola, buona scena
noise e di comics underground da fine degli anni ’90 a metà degli anni 2000. Io ho cercato di andarmene da casa il prima possibile, lì non c’è niente da fare e nessun posto dove andare. È un perfetto terreno per la formazione di artisti».
Lei era “il tipo strano della classe”?
«Io ero il ragazzino che veniva chiamato “frocio” e picchiato.
Andavo in giro con altri nerd e ci piaceva dipingere piccole statue di folletti. Ogni tanto i miei disegni generavano un flebile interesse ma poi tornavo subito a masturbarmi e a essere picchiato».
È vero, come ha dichiarato al Guardian, che i suoi genitori
erano “un motociclista e una tossicodipendente”?
«Sì, mio padre faceva parte dei Satan’s Rider. Ci ha abbandonati quando avevo circa due anni. Per un po’ di tempo ci siamo parlati ma adesso non più. Mia madre non riesce ancora a uscire dalle droghe. Cerco di starle vicino ma a volte è davvero difficile. Continua a mettersi nei guai e io non so cosa fare. Così disegno».
A proposito, quando ha iniziato? C’era qualcuno in famiglia che già lo faceva?
«No, nella mia famiglia si dedicano tutti alle droghe e al gioco d’azzardo nella speranza che cambi qualcosa nel loro futuro prossimo. Non so perché io ci sono così attaccato. Ho iniziato pubblicando fanzine quando avevo otto anni e non mi sono mai fermato. Credo che mi abbia salvato la vita».
Quali sono state le sue influenze?
«Un sacco di cose: Mad Magazine e i Simpson, Peter Bagge, Todd Solondz, il collettivo Paper Rad e i vari artisti pubblicati da Fantagraphics».
Le sue storie sono apparentemente nichiliste ma in realtà piene di energia: un po’ come la musica punk…
«I ragazzi “strani” adesso fanno questo assurdo rap: il Soundcloud rap. Una persona di 36 anni non lo dovrebbe ascoltare ma parla molto di depressione e di come uscire dalla povertà. E forse oggi il pop è il nuovo punk».
Perché si veste come una strega? È qualcosa che ha a che fare con la ribellione di genere?
«Mah, non so. Mi è sempre piaciuto vestirmi da donna. Ero molto stressato a riguardo, non osavo dirlo a nessuno. Poi quando ho iniziato a farlo, a nessuno gliene fregava niente. Adesso che mi sono espresso non mi interessa più di tanto. Più che altro me ne sto nel mio studio in pigiama».
Nel suo tour italiano, che comincia proprio oggi qui a Roma, si mostra vestito da donna?
«No, probabilmente sarò in boy mode: non mi andava di passare la dogana americana con una valigia piena di parrucche e tette finte».
Chi legge le sue storie?
«Gente che ha Netflix ma che per qualche strana ragione ama ancora connettersi con piccole vignette quadrate stampate su fogli di carta. E aspiranti cartoonist che cercano di rubare la mia ricetta segreta».
Non ha mai avuto problemi con le sue storie?
«Sì, a qualcuno hanno dato fastidio. Ma il rimedio è semplice: basta non leggerle. Ho ricevuto diverse minacce di morte nel corso degli anni. Ma soprattutto per il fatto del vestirmi da donna».
Conosce qualche artista italiano?
«I love Zanardi (di Andrea Pazienza, ndr). Nel tour italiano porto una nuova fanzine, Happy Fucking Birthday, a cui ho aggiunto qualche stupido stereotipo sugli italiani per renderla “speciale” per voi».
Ma secondo lei un barlume di speranza esiste ancora?
«È tutto piuttosto cupo e tetro in questo periodo. Nel prossimo volume Gufo se ne andrà di casa e… uhm… sì beh, non c’è speranza.
Presto saremo tutti morti. E allora?
Che importanza ha quando posso scaricare ancora un altro gioco sulla mia Nintendo Switch?».