la Repubblica, 9 aprile 2018
I 70 anni di Lippi. «Com’è stato bello perdere invecchierò alla Belmondo»
Marcello Lippi si prepara ad accogliere i suoi 70 anni, giovedì, citando Jean Paul Belmondo: «Ne aveva appena compiuti 68 dopo un leggero ictus e stava con una compagna di 28 anni più giovane. Siete fissati con l’età, diceva: io ho deciso che avrò 50 anni per tutta la vita. Ecco, io pure».
Che rapporto ha col tempo che passa?
«Mi sento come a 55 anni, come a 58, faccio i tuffi dalla barca e dal pontile, vado 40 metri sott’acqua. Il tempo è solo questione di salute».
E quella storia che si invecchia imparando cose?
«Serve a sbagliare ancora, a sbagliare meglio. Vivi, e intanto accumuli conoscenza, metti sempre più cose da parte.
Serviranno, ma anche no».
Se lo ricorda il primo pallone?
«Bianco e nero di gomma leggera, il Super Flex per giocare in spiaggia, e quello di cuoio col legaccio al campo: se pioveva, pesava cento chili. E se lo prendevi di testa nel punto della stringa, ti timbrava la faccia».
Che ragazzo era Marcello?
«Un tipo estroverso ma tranquillo che amava il calcio e viveva profondamente la sua città, Viareggio. Sei mesi all’anno a giocare a pallone sulla sabbia e gli altri sei a giocarci in pineta, la mamma verso sera chiamava, io rispondevo “di già?”. Poca scuola, solo fino alla terza media: il mio difetto».
Però ha fatto il pasticciere.
«Ero il garzone di mio padre e ho lavorato anche in un negozio di lampadari e articoli elettrici. A volte mi assentavo per il calcio. Il contabile, un ragioniere con gli occhialoni e la vocetta da aguzzino mi diceva: vedrai che prima o poi ti licenziano. Io rispondevo: fatti i c.
tuoi! Il giorno del provino con i blucerchiati lui insisteva, e io: “Che me ne frega se mi licenziano, mi ha comprato la Sampdoria».
Come giocava Lippi?
«Molto tecnico, bravo di destro e sinistro, gran colpo di testa. Un centrocampista che segnava, 35 gol nel campionato Allievi, però un po’ lento. Così l’allenatore della Primavera, Cherubino Comini, mi mise a fare il libero. Me la sono cavata».
Vuole più bene alla mamma, la Juve, oppure al papà, la Nazionale?
«Niente, ma proprio niente è paragonabile alla vittoria di un mondiale. Poi, certo, ogni cosa ha il suo momento. La Juve è stata la mia prima grande squadra, gli scudetti, la Champions, l’Intercontinentale».
Però dalla cima del mondo si può solo scendere.
«Un attimo dopo il mondiale per club vinto a Tokyo, mi girai verso il mio vice Narciso Pezzotti e gli dissi: Ciso, ora ricominciamo da capo. Il difficile è farlo capire ai giocatori, spiegando che dare il 100 per cento non basterà più».
Lei tornò alla Juve e in Nazionale: un atto d’amore, o un errore?
«C’è sempre una spinta di fedeltà, il rischio esiste ma io sono toscano e so che la minestra riscaldata, la nostra ribollita, è buonissima.
Quando tornai alla Juventus non avrei mai creduto che nella cassaforte delle finali di Champions ce ne fosse ancora una per me: perduta, purtroppo. Ma vinsi pure due scudetti».
In azzurro tornare fu
amarissimo.
«Ricordo quando me ne andai dopo Berlino, con Gattuso che mi prendeva per il collo e mi diceva “se vai via ti ammazzo”, e i giocatori che chiedevano a mia moglie di convincermi a rimanere: impossibile, avevo ascoltato troppe cattiverie su di me e la mia famiglia.
Quando si prospettò un eventuale ritorno, diedi la mia disponibilità se l’Europeo 2008 non fosse andato bene: con un solo rigore diverso contro la Spagna sarebbe rimasto Donadoni».
Lei ha anche perso molto. Che rapporto ha con le sconfitte?
«Le definisco i miei momenti più belli. Sono cresciuto perdendo, sono diventato un vincente perdendo. Alla sconfitta ho sempre risposto: ah sì?, ora vedrai!».
Cosa vorrebbe si dicesse di lei?
«Che sono stato un allenatore tradizionale nella modernità. Mi sento stimato, dai colleghi specialmente, anche più come uomo che come allenatore. E poi ora sono un selezionatore: l’allenatore non lo farò più. Però sono sincero: provo un brivido pensando che resterò nella storia».
In panchina c’è qualcosa da inventare o abbiamo visto tutto?
«Se hai una squadra normale la tattica conta ancora, se invece hai grandi talenti devi solo spiegargli come mettersi a disposizione di tutti. Per questo il migliore è Guardiola: grande tattico, grandissimo psicologo».
Le due squadre della sua vita, Napoli e Juve, sono sempre lì a combattere: come finisce?
«La Juve cambia spesso formazione per reggere il triplo impegno, il Napoli ha dovuto scegliere il campionato perfezionando gli automatismi, cosa che i bianconeri non possono permettersi. Oggi il Napoli ha 13/14 elementi di spicco, per una crescita definitiva devono arrivare a 18/20».
La Juve gioca peggio?
«Non può giocare sempre benissimo, però è competitiva.
Almeno fino a quando non incontra i mostri sacri».
Allegri farebbe bene ad andarsene a fine stagione?
«Penso a Ferguson che restò 25 anni al Manchester United, tenendo la squadra al vertice e rinnovandola sempre. Bella sfida. Certo, poi arriva il giorno in cui vincono gli altri».
Mister Lippi, ma lei con Marcello va d’accordo?
«Abbiamo gli stessi gusti. Quando c’è la Champions, Marcello dice “porca miseria, vorrei avere un’altra occasione come Heynckes al Bayern”, poi pensa: “Hai 70 anni, dove cavolo vai?”. Io e Marcello andiamo d’accordo perché ci piacciono tanto il pallone e il mare, anche quello mosso, soprattutto quello».