la Repubblica, 8 aprile 2018
Ordini e divieti, così l’Isis governava i suoi territori
MOSUL Alcune settimane dopo che i militanti si furono impossessati di questa città, mentre i combattenti scorrazzavano per le strade e gli estremisti religiosi riscrivevano le leggi, dagli altoparlanti delle moschee locali risuonò una direttiva: i funzionari pubblici dovevano presentarsi agli uffici nei quali lavoravano.
Per essere sicuri che il messaggio fosse recepito, gli uomini dell’Isis chiamarono al telefono i supervisori dei singoli uffici: uno di loro cercò di tirarsi indietro ma gli fu detto che se non si fosse presentato i militanti sarebbero gli avrebbero «spezzato la schiena».
La telefonata raggiunse Muhammad Nasser Hamous, da 19 anni veterano della direzione irachena dell’agricoltura, a casa sua, dove si stava nascondendo.
Terrorizzato, Hamoud si recò con i colleghi in ufficio: quando arrivò trovò le poltrone allineate ordinatamente, come nell’imminenza di una conferenza.
Il comandante dell’Isis entrò nella stanza e si mise a osservare i presenti con la gamba protesa in modo tale da mostrare la pistola sulla coscia. Per un attimo, l’unico suono che si udì fu quello delle preghiere bisbigliate dai funzionari pubblici. Ma i loro timori si rivelarono infondati.
Benché parlasse con un voce minacciosa, il comandante fece una richiesta mite: «Riprendete immediatamente il vostro lavoro». Nel 2014, in tutto il territorio controllato dallo Stato Islamico si sono svolte riunioni come questa.
Ben presto, i dipendenti comunali sono tornati a riparare le buche per strada, a verniciare gli attraversamenti pedonali, a riparare le linee elettriche e a controllare le buste paga.
«Abbiamo svolto lo stesso lavoro di prima: ma al servizio di un gruppo di terroristi», dice ora Hamoud.
Storie come questa dimostrano che in Siria e in Iraq i combattenti arruffati che avevano fatto irruzione arrivando dal deserto più di tre anni prima, hanno fondato uno Stato riconosciuto soltanto da loro. Che però per circa tre anni, ha mantenuto il controllo su una distesa di terra che è arrivata ad avere le stesse dimensioni della Gran Bretagna e una popolazione di 12 milioni di abitanti.
Come ha potuto un gruppo di militanti tenere sotto controllo così tanto territorio per così tanto tempo? Parte della risposta può trovarsi nelle oltre 15mila pagine di documenti che ho recuperato in 5 viaggi in Iraq compiuti in più di un anno.
Lo Stato Islamico ha dato vita a uno Stato di grande efficienza, che riscuoteva le tasse e raccoglieva la spazzatura. Ha diretto un ufficio matrimoni che sovrintendeva alle visite mediche delle coppie per garantire che potessero avere bambini. Ha rilasciato certificati di nascita a bambini nati sotto la bandiera del Califfato. Ha perfino diretto un suo dipartimento della motorizzazione. Documenti e interviste a decine di persone dimostrano che in alcuni periodi il gruppo ha garantito servizi migliori rispetto a quelli del governo che ha sostituito. Una delle chiavi del successo amministrativo dell’Isis è stata la diversificazione del flusso di entrate: riceveva introiti da tantissimi canali, che nessun bombardamento aereo era in grado di grado di mettere fuori uso.
Libri mastri e budget mensili mostrano come i militanti abbiano fatto fruttare ogni centimetro del territorio, tassando ogni spiga di grano, ogni litro di latte, ogni cocomero venduto nei mercati.
Dalla sola agricoltura hanno ottenuto centinaia di milioni di dollari. Contrariamente alla percezione comune, il gruppo si è autofinanziato e non è dipeso da donazioni esterne. E c’è dell’altro: i documenti provano che le entrate fiscali superavano di gran lunga gli introiti della vendita del petrolio. A far funzionare il Califfato erano gli scambi commerciali e l’agricoltura, non il petrolio.
Dopo la riunione, Hamoud, un sunnita, è tornato al lavoro e ha scoperto di avere solo colleghi sunniti: cristiani e sciiti erano scappati. Per un po’, tutto è andatio avanti come prima. Ma gli uomini dalle barbe lunghe avevano in mente un piano preciso. Prima di tutto, hanno mandato a casa una volta per tutte le dipendenti donne. Poi hanno sprangato le porte dell’ufficio legale: ogni disputa sarebbe stata risolta secondo l’unica legge, quella di Dio. Ai dipendenti è stato quindi comunicato il divieto di radersi e di indossare pantaloni lunghi fin sotto la caviglia.
Hamoud ha smesso di comprare rasoi e ha chiesto alla moglie di accorciare di 5 centimetri l’orlo.
Presto l’ufficio di Hamoud ha ricevuto l’ordine di compilare un elenco dettagliato delle proprietà dei non-sunniti e di espropriarle per redistribuirle. È stato istituito un nuovo ministero, incaricato di rastrellare e redistribuire letti, tavoli, librerie, perfino le forchette che i militanti avevano sottratto dalle case: il “Ministero delle spoglie di guerra”.
Mentre il 2014 scivolava nel 2015 e Hamoud e i suoi colleghi contribuivano a far funzionare l’apparato di governo, i militanti dello Stato Islamico si sono impegnati a riformare ogni aspetto della vita in città. A iniziare dal ruolo delle donne.
Nelle strade sono stati appesi cartelloni con l’immagine di una donna completamente velata. I militanti hanno requisito una fabbrica tessile obbligandola a produrre balle di tessuto femminile conforme ai regolamenti. Ben presto, migliaia di niqab sono arrivati sul mercato e le donne che non ne facevano uso hanno iniziato a essere multate. Hamoud si è arreso e ne ha comprato uno alla figlia. Poi ha preso l’abitudine di percorrere strade secondarie per non assistere alle sempre più frequenti esecuzioni. Un giorno, un’adolescente accusata di adulterio è stata costretta a inginocchiarsi, poi le è stata gettata in testa una lastra di pietra.
Su un ponte i corpi di alcune persone accusate di essere spie sono rimasti appesi a lungo.
In quelle stesse strade, però, Hamoud si è reso conto di un dettaglio che lo ha riempito di vergogna: i marciapiedi erano più puliti di quanto non fossero mai stati prima. Gli spazzini erano sempre gli stessi, ma era cambiata la disciplina: «Tutto quello che potevo fare con il governo iracheno, nel caso di un lavoratore ozioso, era sospenderlo per un giorno senza paga», racconta Salim Ali Sultan, incaricato di sovrintendere alla raccolta della spazzatura. «Sotto l’Isis, invece, chi non lavorava finiva in prigione». Diversi abitanti hanno aggiunto che i loro rubinetti erano a secco meno spesso, le fogne non traboccavano, che le buche erano riparate più rapidamente.
Il nuovo governo non si occupava soltanto di questioni amministrative: c’era un apparato burocratico anche per la moralità.
I cittadini fermati dalla hisba, le forze dell’ordine addette a far rispettare la morale, erano costretti a comparire davanti a un tribunale per essere giudicati. Chi veniva riconosciuto colpevole doveva firmare uno stampato dichiarando «mi impegno a non tagliarmi di nuovo la barba», come si legge in una nota, o «a non farmela spuntare». «Se lo rifarò, sarò sottoposto a ogni genere di punizione che la hisba vorrà infliggermi». I cittadini potevano finire in cella per oscuri reati come sfoltirsi le sopracciglia, tagliarsi i capelli in modo inappropriato, allevare piccioni, giocare a domino o a carte, suonare musica e fumare il narghilé.
Ad un certo punto Hamoud aveva deciso di cercare di scappare.
Insieme al figlio maggiore Omar, 28 anni, era riuscito a mettere da parte 30mila dollari. La mattina della prevista partenza, Omar ha prelevato tutti i soldi dal conto in banca. Dopo nemmeno due ore, una pattuglia di combattenti ha abbattuto la porta di casa e ha sventolato la ricevuta firmata da Omar.
«Provateci ancora e vi uccideremo», hanno intimato.
Traduzione di Anna Bissanti