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 2018  aprile 08 Domenica calendario

«Non sono mai stato di destra o di sinistra. Fuori dalle consorterie, mi etichettavano». Intervista a Riccardo Muti

RAVENNA A Milano, Riccardo Muti ha avuto la consacrazione della maturità artistica. Ma è a Firenze che è cominciata la sua avventura musicale. Erano anni di passioni e di furori: il pubblico aperto alle rarità, gli scioperi, gli spettacoli di Luca Ronconi. Grandi discussioni ideali. Subito dopo il ’68, Riccardo Muti a 27 anni mette le sue prime radici come direttore stabile del Maggio Musicale a Firenze, dove rimase dal settembre ’69 all’ottobre ’81. Nel mezzo, gli esordi alla Scala, con i Berliner, a Salisburgo. Ma il suo debutto avvenne nel 1968: per festeggiare il cinquantenario, l’11 luglio all’Opera fiorentina dirigerà il Macbeth di Verdi in forma di concerto. 
Partiamo dal suo primo concerto?
«Solista era Sviatoslav Richter, un gigante del pianoforte; volle mettermi alla prova e mi invitò a suonare alla tastiera il programma, Mozart e Britten. Disse all’interprete: se dirige come suona, accetto di collaborare con lui. Iniziai le prove, l’atmosfera in teatro era turbolenta, non c’erano i vertici, si discuteva della fisionomia del Festival, aleggiava una minaccia di sciopero. Imposi la necessità di un ordine, sconcertai alcuni dell’orchestra ma convinsi altri che forse avevano trovato in quel giovane direttore colui che poteva rimettere in piedi un situazione confusa. Si creò un’intesa musicale, rispetto e simpatia, ma i concerti furono annullati per lo sciopero». 
E poi?
«Il sovrintendente uscente, Remigio Paone, impresario dal fiuto lungo, colse l’occasione di spostarli al Festival, ed ebbero un successo straordinario. In sala c’era un solo critico, Leonardo Pinzauti, scrisse: un buon concerto di un giovane che non conosco, potrebbe risolvere l’annosa questione del direttore musicale. Cosa che avvenne. Lasciai l’insegnamento al Conservatorio di Milano e presi una casina rosa a Firenze, in via Rucellai 15. Lì sono cresciuti due dei miei tre figli. Acquistai un piano che, non avendo una lira, pagai a rate, in due anni. Oggi che potrei permettermi uno Steinway, non oso abbandonare il mio vecchio amico, su cui studio da 50 anni».
Nel suo esordio, «L’Africana» di Meyerbeer.
«Ero riluttante, il direttore artistico Roman Vlad per convincermi suonò alla mia porta e senza nemmeno dirmi buonasera si mise a suonare e a cantare arie di quell’opera. Dopo una settimana ci fu la Cenerentola di Abbado-Ponnelle, questo per dire il peso del Festival di allora».
Lì nacque la leggenda di Abbado di sinistra e Muti di destra?
«Io non sono mai stato di destra o di sinistra. Sono molto indipendente e forse in quel periodo non appartenere a una certa consorteria significava essere dalla parte opposta: se non sei con noi sei contro di noi. Ho sempre avuto un bel rapporto con i vari sindaci e con la città, che mi ha accolto quando ancora non ero nessuno. Ci fu un momento in cui, eletto un primo cittadino della Dc, mi fu detto che bisognava nominare come direttore artistico un personaggio socialista o comunista, così vuole il pacchetto, mi disse un musicista influente. Io rimasi inorridito».
Ma i teatri musicali non sono sempre stati influenzati dalla politica?
«Io nella mia vita non ho mai avuto ingerenze, mai ricevuto lettere di raccomandazioni da deputati, senatori o ministri. L’artista non è un demagogo, invece spesso si fa demagogia, ogni azione di un musicista è politica nel senso originario della polis, non partitica. Noi siamo al di sopra delle fazioni, ma non al di fuori dei compiti e dei doveri sociali. Il ’68 ha portato a cose negative e positive, di cui oggi ci dimentichiamo, al contrario di quelle negative. Fatto sta che più tardi, nel ’73, scrissi una lettera di fuoco in cui mi dimisi. L’orchestra stava provando e appresa la notizia d’improvviso lasciò un direttore straniero da solo, sul podio, il quale commentò: ma cosa avrò mai fatto di male? Una scena che nemmeno Fellini avrebbe immaginato. Orchestra, coro, ballo e una parte dei tecnici, solidali con me, entrarono in sciopero. Ci fu un ribaltone, venne nominato un commissario. Il clima politico e culturale era battagliero, ricordo una seduta non solo del cda ma al Comune perché Cavalleria e Pagliacci erano ritenuti una scelta conservatrice e anti-culturale. Io e Vlad fummo quasi messi alla gogna».
Luca Ronconi?
«Il suo Orfeo e Euridice rivoluzionò il teatro; il suo Nabucco risorgimentale fu controverso, uno gridò: Ronconi in Arno! Ricordo Le nozze di Figaro “di” Vitez, Ifigenia in Tauride con le scene di Manzù: mentre gli raccontavo la trama, lui disegnava la scena con un grande medaglione; e l’ Otello “di” Jankso in cui abbiamo dovuto ingiustamente rinunciare all’apparizione di una donna nuda, una delle prime volte a teatro…».
A Firenze cominciò tutto.
«Sì, ho profonda gratitudine verso questa città. Ricordo i Requiem di Verdi a San Lorenzo: la chiesa costruita dal Brunelleschi, i pulpiti di Donatello, le tombe medicee di Michelangelo, l’altare del Verrocchio. Ditemi voi se non c’era da impazzire mentre dirigevo Verdi. E dov’è l’Italia di allora?».