Corriere della Sera, 7 aprile 2018
Il marchio a fuoco di don Milani sulla pelle del riformista Ichino
Di Pietro Ichino conosciamo tutti il riformismo intransigente, l’impegno di giuslavorista e parlamentare, gli articoli sul «Corriere» e la capacità indiscussa di animare il dibattito politico-culturale sui temi del lavoro. La casa nella pineta, il libro che lo stesso Pietro ha scritto per Giunti, ci regala molto di più: ci porta dietro le quinte, riavvolge il nastro della sua vita e ci mostra le radici, gli affetti, i luoghi e ci racconta quello che possiamo chiamare persino il tormento intellettuale. La pineta è quella di Forte dei Marmi e ad abitare la casa sono i Pellizzi-Ichino, una famiglia della buona borghesia milanese, profondamente cattolica e animata da uno spirito di ricerca intellettuale mai domo. La casa che dà il titolo al libro è un posto di villeggiatura, di ristoro, ma è soprattutto un luogo dell’anima che rende possibile l’avvicendamento tra le generazioni nel segno di valori comuni e non negoziabili. In mezzo c’è lui, Pietro Ichino, per tutti Pierino, che ci appare diviso tra le sue origini borghesi e gli ideali che lo porteranno a militare in quello che una volta eravamo soliti chiamare «il movimento operaio». In realtà Pietro ci spiegherà che preferisce di gran lunga gli operai in carne e ossa al «movimento» ovvero alle strutture organizzate del Pci e del sindacato. I primi gli appaiono solidamente pragmatici, orientati alle soluzioni, quasi dei riformisti a prescindere, le altre sono macchine politiche portate a coartare l’individuo, la dialettica delle opinioni, la libertà intellettuale.
Nella comunità degli Ichino che fanno la spola tra Milano e il Forte fa la sua irruzione nella primavera del 1959 don Lorenzo Milani. La famiglia di Pietro è da tempo affascinata dalle idee del priore di Barbiana, dalla sua predicazione radicale che «ci insegnava a vedere sempre nella sofferenza umana, e soprattutto in quella originata dall’ingiustizia sociale, l’ extremum che mette in discussione le nostre avarizie». E sarà proprio don Lorenzo «a marchiare a fuoco» Pierino durante una visita milanese. La vexata quaestio è la ricchezza: il priore la vede come una sottrazione di risorse necessarie ai poveri e così accennando al benessere che vede nella casa milanese dei genitori di Pietro il priore si rivolge al giovane Ichino e sentenzia: «Per tutto questo ancora non sei in colpa, ma dai ventun anni, se non restituisci tutto, incomincia a essere peccato».
A distanza di 60 anni Ichino è capace di segnalarci tutti i limiti di quella posizione, lo definisce «un classismo etico» o ancora «un comunismo radicale molto più incisivo di quello del Pci». In un altro passaggio segnala persino come il radicalismo di don Milani si sposasse con una concezione conservatrice del ruolo delle donne, che in buona sostanza dovrebbero stare a casa a pulire i bambini e fare le faccende. Ma in quel lontano 1959 la sentenza del priore lascia il segno, lo marchia a fuoco per l’appunto.
Quel «dovrai restituire» è un precetto che conterà molto nella vita di Pierino, al punto da fargli scegliere di non percorrere la via (comoda) dell’ingresso nello studio legale paterno e di una congrua retribuzione di avvocato borghese, ma quella di «avvocato scalzo», che va a lavorare prima in un circolo di zona della Fiom e poi gestisce l’ufficio legale della Cgil milanese. Con uno stipendio assai più magro. Ma l’episodio del 1959 e l’itinerario successivo ci aiutano anche a capire meglio di che pasta sia fatto il riformismo di Ichino. Non è certo un moderatismo di sinistra e non deriva top down dalle culture della tradizione socialista: laddove si contrappose al filone comunista, il migliorismo di Pietro è la ricerca della soluzione giusta che sappia massimizzare le chance dei subalterni tenendo in conto però l’interesse generale, è rigore intellettuale portato fino alla provocazione.
Il secondo episodio chiave del libro è più prosaico: la bocciatura alle elezioni del 1983. Pietro fa una prima legislatura a Montecitorio, mandato a Roma dal partito come un enfant prodige del diritto del lavoro, ma la volta successiva viene azzoppato dai suoi stessi compagni di partito, che gli fanno mancare le preferenze. È l’epilogo di una dialettica aspra tra l’avvocato borghese e riformista e l’ala operaista dei parlamentari del Pci, soprattutto i torinesi.
Da quell’episodio però prende l’abbrivio la seconda stagione dell’impegno di Pietro, che conosciamo e apprezziamo: la cattedra universitaria, la collaborazione al «Corriere» e infine il ritorno nello studio legale paterno. Ed è proprio con la morte del padre Luciano che La casa nella pineta si chiude. «Lo accarezzai per l’ultima volta, e mi sembrava di dare l’addio a un fratello più che a un padre».