la Repubblica, 7 aprile 2018
Lula tratta per non finire in carcere
Lula, idolo condannato, tratta la resa RIO DE JANEIRO, BRASILE È il primo presidente del Brasile a finire in carcere. Luiz Inácio Lula da Silva non l’avrebbe mai immaginato. Ma di fronte a un destino amaro usa tutta la sua forza dissuasiva e resiste fino alla fine. Cede solo all’ultimo. Sotto la pressione dei suoi avvocati e degli amici che temono il peggio. Chiede un jet privato per essere condotto in cella, non un aereo federale. Un jet da ex presidente, non da criminale qualunque. Ci sarà tempo per tirarlo fuori dal carcere. Con tutti gli strumenti, giuridici e politici. Si consuma così, oltre i limiti imposti dai magistrati, l’ennesimo atto di uno scontro che segna una ferita profonda nel Brasile travolto dalla crisi e da una corruzione dilagante. La lunga attesa verso l’ultimatum fissato dal Moro inizia nella notte. Lula è chiuso al secondo piano del palazzo che ospita la sede del Sindacato dei metalmeccanici a São Bernardo do Campo, nello Stato di San Paolo. Ci sono quattro cordini di sicurezza che impediscono a chiunque di avvicinarsi. Partono, a cerchio, sin dall’ingresso sulla strada. Il leader del Pt discute con i suoi avvocati e con i dirigenti del partito. Bisogna decidere che cosa fare; l’ex due volte presidente del Brasile è inizialmente deciso a resistere, vuole restare nella sede del sindacato, si sente protetto e difeso. Rifiuta la sola idea di finire in cella. Lo trova oltraggioso perché frutto di un processo che non accetta, basato su prove “false”. Centinaia di operai, militanti, simpatizzanti, circondano l’edificio, alzano tende, preparano la brace con carne e birra per tutti. C’è un fiume ininterrotto di visite: amici, senatori e deputati, ex ministri, anche un gruppo di artisti, attori e scrittori. Si mobilita lo staff dei legali. Presenta una nuova richiesta di habeas corpus al Tribunale Superiore Federale: punta ancora sulla libertà preventiva. Viene esaminata e respinta nel pomeriggio. Nel Supremo c’è anche una istanza urgente di legittimità costituzionale. Si cerca di bloccare l’arresto. È una corsa contro il tempo. Disperata. L’ordine di cattura deve essere eseguito entro le 17. Un’ora dopo sarà impossibile: la legge brasiliana vieta l’intervento della polizia dal tramonto all’alba. Nelle case private. Ma qui siamo in un edificio pubblico e la regola non verrebbe applicata. Nella stanza al secondo piano l’atmosfera è quasi surreale. La discussione si è incagliata. Lula rifiuta di andare a Curitiba per consegnarsi alla polizia. Gli avvocati tentano di dissuaderlo. C’è il rischio di incidenti perché alla fine saranno gli agenti ad arrivare e l’arresto si trasformerebbe in una battaglia. Ci sono delle trattative tra l’ufficio del pm Moro e i legali. Il magistrato ribadisce che l’ordine di cattura è esecutivo. Ogni resistenza aggrava la posizione del condannato. «Se non si costituisce», avverte, «spicco un secondo ordine restrittivo. Ma il vostro assistito non potrà più beneficiare dei riguardi che ho concesso». Il giudice ha chiesto agli agenti la massima cautela: niente manette, nulla di ostentato, nessuna forzatura che possa ledere l’immagine dell’ex presidente. Al primo sgarbo il Brasile è pronto a esplodere. E poi avrà una cella dignitosa: Lula sarà rinchiuso in un’ampia sala della Polizia Federale, quella usata dai Sovrintendenti e dai poliziotti che arrivano da altre sedi. Senza sbarre alle finestre e con bagno personale. Non la condividerà con altri detenuti. Gli avvocati negoziano con gli agenti i termini della resa. Lula adesso è chiuso con i vertici dei movimenti sociali, operai e del Pt. Gli urlano: «Non consegnarti». Li convince della sua scelta. Andrà in prigione. – Daniele Mastrogiacomo