il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2018
«Eataly ha imparato anche dai suoi errori: ora la Borsa». Il presidente esecutivo spiega la strategia verso la Cina e risponde alle polemiche sul parco Fico e i lavoratori precari
Dopo 10 anni in Luxottica, uno a Palazzo Chigi con Matteo Renzi, da due anni Andrea Guerra è presidente esecutivo di Eataly.
Andrea Guerra, a che punto è il percorso verso la quotazione in Borsa di Eataly? Ci avete ripensato?
Eataly ha chiuso l’undicesimo anno di vita ma per molto tempo è stata un solo negozio, è un’azienda giovane, sta arrivando ora a 470 milioni di fatturato, con una crescita nel 2017 del 20 per cento, stesso ritmo nel primo trimestre 2018. Due settimane fa abbiamo aperto un negozio a Stoccolma e il mercato del Nord America vale ormai più di quello italiano. Il percorso è verso l’azienda aperta, qualche anno fa è entrata la famiglia Tamburi con Tip, l’anno prossimo dovremmo aprire il capitale alla Borsa per una nuova fase di crescita.
Il mercato a cui tutti puntano è quello della Cina. Come si sta muovendo Eataly?
Vorremmo aprire tra Italia, Usa ed Europa altri 12-13 negozi e poi iniziare a mettere le radici in Asia. Davanti a noi abbiamo ora Las Vegas, Parigi, Toronto, Verona, Londra, per elencare i più importanti. Entro il 2020-2021 speriamo di avere il nostro primo negozio a Hong Kong o nella grande Cina. Stiamo scegliendo un partner, per non fare questo passo da soli. Stiamo vagliando grandi retailer, gestori di esperienze o specialisti del real estate. Eataly è un marchio molto riconosciuto, abbiamo vari potenziali interlocutori. Ci sono protagonisti del digitale interessati, hanno capito la centralità dell’esperienza alimentare. Anche Amazon ha appena comprato la catena di supermercati biologici Whole Food.
Il bilancio 2016 sembrava indicare che, esaurita la spinta di Expo 2015, Eataly arrancasse: fatturato di 178,8 milioni, perdita di 11 milioni.
Il 2016 è stato un anno determinante: tanti nuovi negozi in Paesi nuovi, dalla Germania al Brasile, c’è stata la necessità di investire e fare errori, che sono fondamentali nella vita imprenditoriale. Nel 2017 abbiamo capito cosa avevamo sbagliato e stiamo uscendo dall’adolescenza: l’Ebitda che nel 2016 era un milione, l’anno scorso è stato tra i 20 e i 25 milioni. Tra 15 giorni approveremo il bilancio, il primo consolidato di gruppo.
Il parco Fico a Bologna è al centro di polemiche perché spesso un po’ vuoto, con i sindacati che denunciano il mancato rinnovo di 90 interinali. Che prospettive ha?
Fico è una grande innovazione e spero che presto in italia saremo tutti orgogliosi di questo progetto. Nei primi 3 mesi di operatività ha superato il milione di visitatori, dovrebbe chiudere l’anno tra i 50 e i 60 milioni di fatturato con l’ambizione di arrivare a 100 nel triennio. Come tutti i parchi va meglio nel weekend e nelle feste ed è meno pieno a inizio settimana. La bella stagione spingerà le visite, il primo bilancio si potrà fare solo a ottobre. C’è stato molto turismo italiano, ci aspettiamo che con la primavera arrivino i tour operator internazionali. È una attività stagionale, ci saranno momenti di aumento del personale e altri di riduzione, come nelle attività di questo genere.
Negli anni Eataly ha avuto qualche infortunio di immagine: lavoratori perquisiti all’uscita dai supermercati, proteste per le condizioni di lavoro, contratti precari non rinnovati senza troppe spiegazioni.
Un’azienda che nasce su un manifesto di ideali dedicato all’armonia ha a cuore i propri lavoratori. Nella fase di creazione di un nuovo modello imprenditoriale può essere stato commesso qualche errore, poi ammesso e risolto. Oggi i contratti a tempo indeterminato in Italia sono quasi il 90 per cento. Siamo tra le 20 aziende indicate come migliori datori di lavoro per laureati. Abbiamo introdotto un contratto integrativo con elementi di welfare, dal tempo libero alla parte sanitaria, e investiamo molto in formazione. I ragazzi di Eataly devono padroneggiare le tre anime del nostro modello: scuola, ristorazione e mercato.
Oscar Farinetti non ha cariche in azienda ma continua a essere il volto di Eataly. Com’è la divisione dei compiti tra voi?
Lui è il fondatore e presidente onorario e io non ho mai avuto problemi di deleghe, come quando lavoravo con Vittorio Merloni e Leonardo Del Vecchio: è bello riconoscere il ruolo del creatore ma anche separare i ruoli quando cresce la complessità strategica e operativa.
Lei è stato un anno a Palazzo Chigi come consigliere di Matteo Renzi. Che bilancio fa di quell’esperienza?
È stato intenso, diverso da tutto ciò che avevo fatto prima. Sarebbe bello che in tanti restituissero al proprio Paese un anno della propria vita: manager, artisti, scienziati. Come Diego Piacentini, da Amazon all’Agenda digitale.
In questo Parlamento non ci sono industriali. La politica e l’azienda si sono separate?
Stiamo vivendo una serie di rivoluzioni, tra globalizzazione e tecnologia. Ci sentiamo tutti meno sicuri, serve un salto culturale, bisogna aprirsi: i ragazzi devono diventare cittadini del mondo, le nostre università offrire meno teoria e più pratica, gli imprenditori capire che è meglio avere il 50 per cento di un’impresa più grande invece che il 100 di una piccola e uguale a quella del vicino. Ma bisogna anche aiutare chi rimane indietro.
In che modo?
Ho sempre difeso il Jobs Act, ma non si è fatto abbastanza per le politiche attive a sostegno dei ragazzi che devono entrare nel mondo del lavoro, dei 50enni che si trovano messi da parte, dei disoccupati. È la storia di queste elezioni. Oggi è incredibilmente visibile, ma si capiva già nel 2013.