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 2018  aprile 06 Venerdì calendario

Una privatizzazione mal riuscita. L’Italia prova a voltare pagina

Il cosiddetto “piano Rovati” porta la data del 5 settembre 2006. Ventisette cartelle zeppe di numeri per dimostrare perché a Telecom conviene privarsi della rete, consegnarla allo Stato e quotarla in Borsa. Si parlava della rete nella sua interezza, 25-30 miliardi di valore con i quali l’ex monopolista avrebbe potuto pagare il conto di una privatizzazione infelice che l’aveva soffocato di debiti.
Un documento che, alla ventottesima e ultima pagina, conteneva un avvertimento: non crediamo che l’attuale vertice e l’attuale proprietà siano d’accordo con questo piano. L’avvertito, Marco Tronchetti Provera – che era il vertice e la proprietà – dovette farsi da parte.
Cancellati gli avveniristici programmi di convergenza tlc-media, fu salvato perlomeno il core business della rete, l’asset più prezioso con una marginalità superiore al 50%. Ma nel braccio di ferro tra privato, comunque dotato di risorse non illimitate, e pubblico, pentito di aver sacrificato sull’altare dell’euro l’ossatura portante delle telecomunicazioni nazionali, a perderci è stata l’azienda. Nessuno ha mai calcolato quale sia stato il costo dell’impoverimento strategico di un gruppo che una volta era vanto nazionale per capacità di innovazione, presenza multicontinentale e produzione di reddito e occupazione qualificata.
Si è lasciato fare al mercato, ma il mercato – come dice un osservatore disincantato – sono rapporti di forza. E non necessariamente quel che è bene per l’azionista di riferimento di turno – nessuno dopo Colaninno & C. che abbia promosso un’Opa – è bene anche
per il Paese.
Si è arrivati a oggi con il fantasma degli splendori del passato, abbarbicato all’ultimo avamposto all’estero, il Brasile, e in trincea sul terreno di casa a combattere una concorrenza che lo Stato ha portato anche sulla rete, virtuale monopolio naturale, come i fatti stanno dimostrando.
Solo gli stolti non cambiano mai idea, e forse la svolta di Cdp – che ha smesso di stare a guardare – getterà le premesse per riconciliare le esigenze privatistiche di sviluppo con quelle pubbliche di ammodernamento del Paese che non potevano essere soddisfatte da una lotta fratricida. Da qualche mese Telecom ha frenato gli investimenti sulla rete. Non solo il progetto Cassiopea che si proponeva di intervenire nelle aree già sovvenzionate da fondi pubblici, ma anche lo sviluppo della fibra che, nel piano dell’ad Flavio Cattaneo, doveva arrivare a coprire con l’Fttc (fibra fino all’armadietto sul marciapiede) l’85% del territorio e invece si è fermato al 77%. Open Fiber, dalla sua, continua a incontrare difficoltà a finanziare la formula “tutta fibra” del futuro, perchè l’offerta di un’infrastruttura passiva – per quanto performante – non è garanzia di incontrare la domanda, soprattutto se i clienti li ha ancora in pugno il fornitore storico del telefono di casa.
Se ne è dovuta accorgere, a sue spese, l’Australia che avrebbe speso meno a rinazionalizzare Telstra nel 2009, piuttosto che partire da zero sulla rete. «Nel 2009 l’Australia è stato il primo Paese al mondo ad avviare lo scorporo, ma credo che sarà anche l’ultimo a procedere in questo modo», dice Robert Cagnoli, fino al 2013 general manager per le strategie e l’efficienza di Nbn, la società pubblica della rete. Il progetto, che non sarà completato prima del 2026, secondo le ultime stime sarà costato oltre 35 miliardi di euro, senza aver finora centrato nè l’obiettivo di aumentare la concorrenza (i primi tre player controllano ancora l’85% del mercato), nè aver portato un effettivo beneficio ai consumatori, che preferiscono allacciarsi ai 12 mega low-cost, piuttosto che concedersi il lusso dei dispendiosi 100 mega.
Cdp in passato aveva scartato l’ipotesi di conferire Metroweb all’incumbent in cambio di una quota del 10%, per evitare lo scomodo ruolo del portatore d’acqua. Ora, però, la decisione di intervenire direttamente nel capitale di Telecom segnala che Roma forse ha preso coscienza che non basta “scippare” la rete per salvaguardare l’indotto e mantenere un ruolo nel settore strategico delle comunicazioni. A distanza di quasi 12 anni, con buona pace di tutti, il piano Rovati può finalmente essere archiviato. E con questo i tentativi a vuoto di porre rimedio a una privatizzazione “sbagliata” per quanto portata
agli estremi.