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 2018  aprile 06 Venerdì calendario

Federica Pellegrini: «Nascondo sott’acqua la mia timidezza ma ho paura del mare»

VERONA Finita la razione mattutina di nuoto, nel centro intitolato ad Alberto Castagnetti, si siede al tavolino. Intorno, vanno e vengono nuotatori di tutte le età.
In tuta e scarpe da tennis, il cappuccio calato sui capelli biondo-platino, ha un’eleganza naturale.
Federica, ha visto qualche film con Esther Williams?
«No».
Era fortissima sui 100. E il nome di Johnny Weissmüller le dice qualcosa?
«Tarzan».
È un modo per parlare del suo futuro. A occhio dovrebbe essere nel mondo dello spettacolo. Fin qui lei ha fatto spot per l’Enel, per una marca di biscotti, uno shampoo, gioielli basati sul cristallo. Giusto?
«Sì, più Jaked come sponsor tecnico. Ma c’è un ostacolo a questo futuro nello spettacolo, e sono io.
Non mi vedo come attrice né come presentatrice in tv. Sono introversa, piena di incertezze».
Da fuori, non si direbbe.
«Quand’ero più giovane ero anche peggio. Non mi piacevo, non accettavo il mio corpo: grassa, piena di brufoli. Poi le cose sono migliorate, non solo per i risultati che ottenevo ma perché nella vita non si è mai finito di imparare».
Scusi l’ignoranza, ma non sono un esperto di nuoto. Nello sport che seguo di più, il calcio, a una certa età l’attaccante può diventare centrocampista, e il centrocampista difensore. Lei invece ha scelto di dedicarsi ai 100, una delle specialità che richiedono più forza esplosiva.
Detto brutalmente, chi glielo fa fare?
«La passione per il nuoto. Lo so, avevo detto che avrei smesso dopo Rio 2016, invece ho allungato di quattro anni la data del ritiro. Io nell’acqua ci sto bene, mi sento protetta».
Da chi o da cosa?
«Così, in generale. Altrimenti non sarei arrivata alla soglia dei trent’anni allenandomi come una ragazzina».
Per avere un’idea, com’era e com’una giornata-tipo, lontano dalle gare?
«Alle 8 in acqua, dopo gli esercizi di stretching. A Parigi alle 6, per evitare il traffico. Una decina di minuti di riscaldamento e poi via: sei volte i 200, oppure 24 volte i 100.
Stop verso le 11. Pranzo, eventuale pisolino, alle 15 di nuovo in piscina, mediamente ho nuotato una quindicina di km al giorno. Tre volte la settimana in palestra: palloni, pesi, macchine per potenziare la muscolatura. Stop verso le 17, più o meno. Ho scelto i 100 perché richiedono meno lavoro in piscina e perché da anni sono curiosa di vedere quanto valgo su questa distanza, se mi preparo in maniera specifica. Anche quand’ero duecentista mi attiravano i 100».
Ad agosto lei avrà trent’anni e ne avrà passati una ventina nel cloro. Non era stufa?
«Da un lato sì, dall’altro no. Avessi chiuso definitivamente col nuoto, l’avrei rimpianto. Ecco perché continuo. È una libera scelta. A Tokyo mancano più di due anni. È anche una sfida a me stessa. A Tokyo ne avrò trentadue».
E anche una sfida alle altre, tutte più giovani immagino.
«Non ho fatto i conti ma a Tokyo sì, penso che sarò la più vecchietta».
E la cosa non la spaventa?
«Neanche un po’. Mi spaventa di più l’idea di nuotare in mare aperto».
Non ci posso credere. La sirena Pellegrini come Fantozzi.
«Non sono l’unica. L’acqua mi piace solo se è trasparente e vedo cos’ho sotto i piedi. In mare aperto nuoterei solo se accompagnata».
Torniamo all’acqua della piscina. Qua dentro, non posso non chiederle cos’aveva di speciale Alberto Castagnetti.
«Riusciva a tenere unita una Nazionale che per lui dava tutto. E guardi che sentirsi squadra in uno sport individuale è molto più difficile che in uno sport di squadra. Era un massacratore, ma non ripetitivo. Per lui il nuoto era come la matematica: se in allenamento facevi due più due, in gara dovevi fare quattro. Sono l’unica donna che ha retto i suoi carichi di lavoro, avevamo una simbiosi molto forte.
Era un grande raccontatore di barzellette, ma non è che mi coccolasse. Almeno una volta alla settimana mi urlava di uscire dalla piscina e andarmene, perché lì non avevo più nulla da fare. La sua morte è stato il più grande dolore della mia vita».
Federica, cos’è per lei la
felicità?
«Un senso di pace: ho fatto tutto quello che potevo. Poter sbagliare.
Nello sport è avere un obiettivo, faticare per raggiungerlo, raggiungerlo. Felicità è cadere e rialzarsi. È Budapest. Ma il momento più bello in carriera l’ho vissuto a Roma nel 2009. Una piscina stupenda, intanto. Non è vero che le piscine si assomigliano tutte, molte sono ricavate da prefabbricati. Ma quella di Roma è diversa, una delle ultime all’aperto, con quei tramonti, quel pubblico, e tutti gli altri a guardare una gara di nuoto nel paese del pallone, quella di Roma trasmetteva un senso di magìa. È la mia piscina del cuore».
A proposito di cuore, non le farò nessuna domanda sui suoi amori.
«Meno male».
Solo una curiosità: è da escludere che in futuro lei s’innamori di un odontotecnico, di un dj, di uno sciatore, di un giornalista?
«Non è da escludere, e non è una mia esclusiva».
Lo so, in generale sembra che sia possibile piacersi e amarsi solo tra nuotatori.
«Finché si gareggia, è quasi inevitabile. Ho girato il mondo e ho visto solo alberghi, aeroporti e piscine. E gente del nuoto».
Il posto del cuore eliminando
le piscine?
«Il mercato intorno alla Bastiglia, giovedì e domenica. Ci ho passato delle ore. In Italia è Venezia fuori stagione, quando c’è meno gente, da camminare tutta. Sento di appartenere a Venezia, un ramo della mia famiglia viene da Murano».
Come va il Tacco 11 a Spinea?
«Bene. Mio padre continua a fare cocktail, mio fratello adesso lavora a Londra, in un cocktail bar dei più importanti».
Fate anche spritz?
«In Veneto non conviene rinunciare agli spritz».
Lei è più bianchista o rossista?
«Decisamente rossista. Per fortuna vivo a Verona e non posso lamentarmi: Valpolicella come vino quotidiano, Amarone per le grandi occasioni».
Le hanno mai proposto di fare politica?
«No, e comunque avrei rifiutato.
Non sono diplomatica, durerei poco. Ma mi sono addolcita rispetto alla ragazzina spigolosa che ero, incazzata col mondo, sempre sulla difensiva. Non mi piacevo, volevo nuotare e basta. Nell’acqua mi nascondevo e mi realizzavo. I miei hanno provato a indirizzarmi verso la ginnastica artistica, ma il tutù non era roba per me».
Gli abiti da sera e i tacchi alti sì?
«Vivendo in tuta e calzando infradito, perché no, ogni tanto? E dove sta scritto che un’atleta debba rinunciare alla sua femminilità?».
Ora si accetta di più?
«Con gli anni e gli alti e bassi che ho vissuto ho una scorza più robusta, ma a volte ho ancora la sensazione che dentro di me abitino una ragazzina timida e un marine pronto allo sbarco col pugnale tra i denti».
Il vostro non è uno sport di contatto: quanto bisogna odiare l’avversaria per batterla?
«Odio è una parola impegnativa, diciamo che a battere un’antipatica c’è più gusto. Ma non sono molte, nel giro. Ci si saluta, ci si rispetta».
Da come s’è mangiata Ledecky, pensavo vi odiaste.
«No, assolutamente. Ledecky è una a posto, tranquilla. Resta vero che la prima posizione è la più difficile da mantenere, ha più punti di riferimento chi insegue».
Lei ha come punto di riferimento Tokyo. Sul dopo, idee vaghe sul lavoro. E sul resto?
«Le solite cose. Una famiglia, i bambini. Ma prima di tutto, vorrei un anno intero in giro per il mondo, a vederlo e a gustarlo davvero. Un anno d’indennizzo».
Da sola?
«E quando mai? Da soli ci si annoia».
Allora parliamo di zone affollate: i social network.
«Tra Twitter e Instagram mi segue un milione e mezzo di persone. Mi firmo Mafaldina».
Perché?
«Mafalda era la mia gatta, comprata alla fiera di Padova. Rossa di pelo lungo, è morta a sedici anni, che per un gatto sono tanti».
Un milione e mezzo di adoratori?
«No, ci sono anche qui gli haters e poi, essendo donna, devo mettere in conto un bel po’ di schifezze. O di stranezze. Prima di Budapest m’ha scritto un fisioterapista veneto: Fede sei finita, è meglio che ti ritiri.
Ho vinto a Budapest e m’ha scritto: sei fantastica, Fede, mi puoi mandare una foto con dedica che l’appendo nel mio studio?».
E gliel’ha mandata?
«No».
Brava.