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 2018  aprile 06 Venerdì calendario

«Einstein insegna: un vero scienziato sa anche recitare». Intervista ad Alan Alda

Abbiamo tutti dei Gps in tasca: ma quanti sanno che la tecnologia di quei marchingegni affonda le sue radici nella teoria della relatività di Albert Einstein? Fondamento di quel sistema è il postulato che la velocità della luce – e dunque dei segnali radio – è costante.

Naturalmente, Einstein non immaginava che la sua intuizione sarebbe stata applicata così: eppure cento anni dopo è alla base di quasi tutto ciò che utilizziamo». Al telefono dal suo ufficio di New York la voce di Alan Alda svela tutta la passione per il personaggio di cui sta parlando. A 82 anni, l’attore di origine italiana (il suo vero nome è Alfonso d’Abruzzo, Al-da) che negli anni Settanta divenne celebre vestendo il camice del dottor Hawkeye Pierce nella serie ormai diventata di culto Mash, è considerato uno dei più seri divulgatori scientifici d’America. Per anni ha condotto il programma Scientific American Frontiers, narrando al grande pubblico le ricerche degli scienziati americani. Resosi conto che molti faticavano a spiegare in cosa consistessero i loro studi, ha creato l’Alan Alda Communication Center: dove usa tecniche d’improvvisazione teatrale per aiutare gli studiosi a spiegare il loro lavoro. Ad Einstein ha dedicato uno spettacolo, Dear Albert, basato sulle lettere private dello scienziato. Scritto per l’edizione 2008 del World Science Festival di New York oggi andrà in scena al Maxxi di Roma con la regia di Mario Sesti (e con Pino Calabrese, Serena Dandini e Pippo Delbono) nell’ambito della mostra Gravity.
Immaginare l’Universo dopo Einstein, organizzata in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana e l’istituto Nazionale di Fisica Nucleare.
Perché uno spettacolo su Albert Einstein, cosa l’affascina di lui?
«La sua umanità: e dunque la sua imperfezione. Tanto brillante nel comprendere il funzionamento dell’universo quanto incapace di capire le persone. Un essere umano, insomma, proprio come noi».
Perché svelarne il lato privato?
«Raccontando l’uomo dietro le scoperte cerco di avvicinare la gente a questioni complesse che molti, a torto, ritengono astratte o che non riguardano le loro vite.
Dalle lettere emerge quanto soffrì: e fece soffrire. Amava le donne, ne ebbe tante. Ma emerge anche che le sue formule nascevano dall’osservazione della realtà.
Guardando dei muratori intuì che se uno fosse caduto giù la gravità non lo avrebbe salvato.
Immaginare la morte di quell’uomo, insomma, lo portò alla formulazione della relatività. Un momento che descrisse come il più felice della sua vita. Ecco, mi auguro che lo spettacolo non solo aiuti la gente a staccarsi dall’immagine stereotipata dello scienziato spettinato che fa la linguaccia. Ma anche che faccia capire che la scienza è una cosa seria e che dipende da noi farne uno strumento che migliora la vita o una bomba più efficace».
Nell’era di Donald Trump, un presidente che nega le conclusioni scientifiche su temi come i cambiamenti climatici, quanto conta questo tipo di consapevolezza?
«Viviamo in un’epoca dove molti considerano la scienza alla stregua di un’opinione: e questo è preoccupante. Purtroppo non è nemmeno una cosa nuova; non nasce con Trump, da tempo, politici e legislatori – in buona o cattiva fede non so – hanno deciso di disinteressarsi della conclusioni degli studiosi. Questo ha portato ad una diffusa mancanza di criticità e di comprensione dell’importanza della raccolta e analisi dei dati. Prima del clima è successo con gli ogm. Accade ancora col fracking. Non siamo più capaci di porre le domande giuste. Ma in parte è anche responsabilità degli scienziati. Chiusi nei loro laboratori, hanno capito troppo tardi l’importanza di comunicare alla gente il senso dei loro studi».
È per questo che ha creato un centro dove insegna agli scienziati come comunicare meglio utilizzando i trucchi dell’improvvisazione teatrale?
«Saper comunicare, o anche semplicemente insegnare, concetti così importanti è essenziale: è l’unico modo per far capire alla gente che su clima o ogm possono decidere anche loro, in base ai politici che scelgono».
E che cosa insegna?
«Che tener desta l’attenzione è un’arte: non bastano i paroloni e la conoscenza della materia. Bisogna mettere in gioco il proprio corpo, le espressioni del viso: perfino il tono della voce. E sa una cosa?
Quel che manca fra pubblico e scienziati è la stessa cosa che, fra amicizie su Facebook, politica che si fa su Twitter e amori che si incontrano sulle app, si sta perdendo anche nella comunicazione a due: l’empatia».
Che cosa consiglia?
«Quando parliamo con qualcuno spogliamoci delle nostre conoscenze: usiamo parole semplici, facciamo domande dirette. E soprattutto, facciamo dell’ascolto una disciplina».
Suo padre voleva che lei diventasse medico: rimpiange non aver intrapreso quel percorso^
«Mio padre mi costrinse a fare un corso di chimica: “vedi almeno se ti piace”. Non mi applicai: temevo che altrimenti, appunto, mi avrebbe costretto a studiare medicina. Ricordo però che l’insegnante non spiegò nemmeno di che tipo di chimica parlavamo.
Erano formule vuote. Anche lì, un problema di comunicazione che hanno molte scuole. Invece capire la scienza dovrebbe essere naturale come ascoltare musica».
Il camice, in realtà, l’ha indossato: ma solo in tv.
«Oh sì, il dottor Pierce di Mash. Col vecchio cast abbiamo appena celebrato 35 anni dalla fine della serie. Non sono uno che si guarda indietro, ma certo mi stupisce che non sia mai andato fuori moda.
Piace perfino a bambini i cui genitori non erano nati quando già andavamo in onda. Ma non ho rimpianti, guardo sempre e solo avanti».
Quale campo scientifico predilige?
«Mi interessa tutto, sono molto curioso. Ma certo mi affascinano molto gli studi sull’evoluzione. E la microbiologia».
E uno scienziato in particolare?
«Ne ho incontrato molti che fanno studi incredibili: fra tanti mi ha colpito Geerat Vermeij. Una persona incredibile, che fa un lavoro sull’evoluzione degli animali da conchiglia: i predatori ne bucavano il guscio ma non arrivavano ad ucciderli. Così quegli animaletti hanno resistito, si sono rafforzati e d evoluti. Ne ha studiati migliaia, raccogliendoli sulle spiagge. Ebbene quello studioso è cieco. E basa buona parte dei suoi studi su quel che sentono le sue dita: sulla tattilità.
Mi affascina quel suo cercare di capire la natura con abilità limitate. Sì, come per Albert Einstein la sua umanità prima del suo essere scienziato».