la Repubblica, 6 aprile 2018
L’amaca
Il clima politico, considerate le condizioni di totale incertezza (o forse proprio per quelle) non sembra incandescente e non sembra da ultimi giorni di Pompei. I toni delle dichiarazioni sono circospetti e possibilisti, così che la mania dell’informazione politica di definire “blitz” o “ultimatum” o “diktat” quasi qualunque frase pronunciata da un politico davanti a un microfono appare, in questi giorni, perfino più inappropriata del solito. Di fronte al rebus di un paese sprovvisto di maggioranze, e con l’inedita presenza, nel ruolo di protagonista, di un partito (M5S) che sfugge a qualunque classificazione fin qui nota, il solo dato di una qualche evidenza è che non siamo a Weimar e nemmeno a Bisanzio; gli eletti si sottomettono senza fare una piega a una consolidata routine istituzionale, che affida al Quirinale e al Parlamento la responsabilità totale del divenire politico; nessuno ha niente di sostanziale da eccepire sul metodo e sui fini delle consultazioni; e perfino la sola vera e forte obiezione “procedurale”, ovvero la liceità del pregiudicato Berlusconi di rappresentare al Colle il quarto partito italiano, è quasi un dettaglio rispetto al complessivo e rispettato ordine delle cose.
Se la democrazia parlamentare, come parecchi pensano e dicono, è solo una pigra e spompata abitudine, ciò che la insidia e/o la contraddice è evidentemente troppo esile e vago per metterla a repentaglio.