la Repubblica, 6 aprile 2018
Supermissile flop resta un conto da 660 milioni
Si è schiantato senza neppure sollevarsi dalla rampa di lancio, come accade nei film sugli scienziati pazzi. Un missile costato ai contribuenti italiani 660 milioni di euro e rottamato dopo venti anni di progetti e test, senza nemmeno arrivare allo stadio di prototipo. Questo è il conto finale che ci lascia il Meads, uno sciagurato programma concepito dai governi di Washington, Roma e Berlino: un sistema contraereo che ha bruciato fiumi di quattrini senza mai decollare.
Un’avventura sepolta nel silenzio dalle nostre autorità, che non ne hanno mai ufficialmente decretato la fine, lasciandolo morire per asfissia di finanziamenti.
Il funerale è stato celebrato da un comunicato diffuso tre settimane fa: la Germania proseguirà da sola nell’impresa, siglando un accordo con la Lockheed statunitense e il consorzio europeo Mbda. I tedeschi intendono completarlo e adottarlo per le loro forze armate. L’Italia è fuori. Ci restano alcune componenti parcheggiate nella base di Pratica di Mare – un posto comando, due modelli di radar, un simulatore e un lanciatore – che non hanno capacità operativa. E l’interesse germanico ad acquistare parte di questi apparati. Un po’ poco a fronte dei 660 milioni di euro versati. Anche se, come ha dichiarato un anno fa in Parlamento il sottosegretario Gioacchino Alfano, «gli investimenti hanno permesso alla Difesa di acquisire e sviluppare un complesso di conoscenze, con ritorni significativi nel settore delle tecnologie avanzate».
In realtà, quei soldi sono stati una trasfusione di denaro dalle casse pubbliche ai laboratori italiani di Mbda, una società europea di cui Leonardo possiede il 25 per cento. Invece che tradursi in nuove apparecchiature per le nostre forze armate, quei fondi sono serviti solo per finanziare le ricerche hi-tech dell’ex Finmeccanica, che adesso ne coglierà qualche frutto contribuendo alla produzione per la Germania. Una maniera discutibile e trasversale di spingere lo sviluppo tecnologico del Paese.
Tutta la saga del Meads andrebbe presa a modello dell’incapacità di pianificare gli investimenti nazionali. Infatti a metà degli anni Novanta l’Italia, con un’insolita grandeur bellica, si è lanciata in ben due programmi per la costruzione di nuovi missili terra-aria. Mentre il mondo viveva una stagione di disarmo globale, noi abbiamo deciso di far partire il progetto Samp/T per la contraerea dell’Esercito e contemporaneamente il Meads per quella dell’Aeronautica. E abbiamo infilato il piede in due scarpe: un missile assieme ai francesi; l’altro con i tedeschi e gli americani. Armi che – alla fine – si ritrovano con prestazioni abbastanza simili.
Ma con una grande differenza: il Samp-T è operativo da tempo, l’altro resta a livello di quasi-prototipo. E la spesa per lo sviluppo parallelo, ovviamente, è raddoppiata.
L’iniziativa italo-tedesco-americana è nata sotto una cattiva stella. C’è voluto un decennio per avviare il disegno definitivo, poi nel 2005 è stato firmato un contrattone da due miliardi e mezzo di euro: di questi, il governo Berlusconi ne ha sborsato un quinto. Ma cinque anni dopo è stato chiesto un altro miliardo. E l’allora presidente Obama, che si faceva carico del 58 per cento delle spese, ha detto basta.
Italia e Germania si sono ritrovate davanti a un dilemma: finire da sole o fermarsi? Nel 2011 l’ultimo esecutivo del Cavaliere ha stanziato altri 50 milioni. Poi c’è stato un obolo conclusivo di tre milioni nel 2016. E quindi il game over.
Oltre alla voragine nei conti, l’addio al Meads ha lasciato anche un buco nella difesa aerea: l’Aeronautica non ha e non avrà più sistemi contraerei a medio o lungo raggio. Per proteggere i cieli italiani oggi ci sono solo cinque batterie dell’Esercito, equipaggiate con l’altro missile, il Samp/T.