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 2018  aprile 03 Martedì calendario

Gli esperimenti sugli animali sono sempre più numerosi

Non sono bastati i proclami, gli impegni e le promesse. Né tantomeno le leggi, nazionali e internazionali. E nemmeno la recente nascita di un vero movimento politico animalista in Italia sta avendo l’effetto di smuovere le acque torbide della sperimentazione animale. Dati del ministero della Salute alla mano, infatti, gli esemplari su cui si sono effettuati test e studi sono aumentati del 4,3% nel corso del 2016 rispetto all’anno prima. Un incremento trainato dalle verifiche sulla tossicità e la sicurezza di farmaci e vaccini (+11,6%), piuttosto che dai classici studi di ricerca (-6,2%). Da 581.935 animali finiti nelle sale di laboratorio nel 2015, si è passati a 607.097. E se si considerano anche le cavie sottoposte a più di un test, il dato complessivo aumenta di 4.610 unità. 
LA CLASSIFICA 
In cima alla graduatoria delle specie più usate dai ricercatori, manco a dirlo, ci sono i topi. Che rappresentano più della metà del totale di esemplari oggetto di esperimenti: 388.835. Sul podio, dietro a loro e ai ratti (128.126), ecco un esercito di oltre 34 mila galli, seguiti da 16 mila porcellini d’India e 14 mila pesci zebra, diffusi soprattutto nei ruscelli e nelle acque stagnanti del continente asiatico. Più raramente vengono utilizzati è proprio il caso di usare questo verbo i macachi resi (3), i furetti (7) e gli anfibi che non siano rane (8). Mentre un capitolo a parte meritano i macachi di Giava, la specie che ha visto il maggior incremento in termini di esperimenti: 224 nel 2015, 488 nel 2016. Più che raddoppiati. E ciò nonostante lo Scheer (Scientific committee on health environment and emerging risks) della Commissione Europea, nel 2017, abbia messo nero su bianco un documento per «sostituire, ridurre e ridefinire gli studi e i test sui primati non umani». Anche perché, come si legge nelle tabelle del ministero, si tratta di animali che prima di essere trascinati in laboratorio hanno subito un’altra sofferenza, quella di essere strappati dal loro habitat naturale (Africa e Asia). 
Ma il dato che fa più rabbrividire è quello della gravità delle procedure. Oltre 280 mila animali, infatti, sono stati sottoposti a test con categorie di dolore definito “moderato” o “grave”. Non si tratta solo di vivisezione, ma di privazioni psicologiche o fisiche tremende. Basti pensare che per alcuni esperimenti gli esemplari possono essere tenuti a digiuno per un paio di giorni, altri non vengono fatti dormire e impazziscono. Non solo. Perché 29.600 animali, nel 2016, non si sono più risvegliati dall’anestesia necessaria per usarli come cavie. Morti. Tra loro 15 mila topi, quasi 7 mila conigli e più di 6 mila ratti. Non solo. Perché bisogna fare i conti anche coi 1.787 animali testati nel 2016 nelle università italiane. Nonostante nel nostro Paese queste procedure a scopo didattico siano vietate, a meno che non si tratti di alta formazione universitaria. 
FANALINO DI CODA 
E se il ministero della Salute ricorda che «i lavori del tavolo tecnico per i metodi alternativi ci vedono seduti al fianco di associazioni protezionistiche, ricercatori, università, Istituto Superiore di Sanità e Istituto Zooprofilattico sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna Centro nazionale di referenza per i metodi alternativi», per gli attivisti del settore c’è ancora molto da fare. «L’Italia, anche nei metodi alternativi alla sperimentazione animale, è il fanalino di coda in Europa. Continuare a sostenerne i costi è obsoleto dal punto di vista scientifico, e in questo modo la ricerca non si sviluppa», spiega Michela Kuan, responsabile Lav per la Ricerca senza animali. «Le realtà che lavorano con metodi alternativi sono pochissime, perché non possono disporre degli stessi fondi di cui dispone chi fa test sugli animali». Sulla stessa lunghezza d’onda l’associazione milanese Osa (Oltre la sperimentazione animale): «Siamo perplessi di fronte a questi numeri. Negli Usa, ma anche in qualche Paese europeo, parecchie risorse vengono investite sulle nuove biotecnologie. In Italia, purtroppo, ancora non succede lo stesso».