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 2018  aprile 04 Mercoledì calendario

I canestri di Dio Villanova e il potere dei college cattolici

Londra Un mistero si aggira per i parquet d’America: perché le università cattoliche vincono così tanto nel basket?
Nei giorni scorsi hanno fatto il bis: Villanova, minuscolo college della Pennsylvania fondato dai padri agostiniani, ha conquistato il titolo degli uomini, per la seconda volta in tre anni, per la terza nella storia del torneo nato nel ’39; e Notre Dame, piccola università dell’Indiana fondata da un sacerdote della Congregazione di Santa Croce, ha conquistato quello delle donne, con una tripla all’ultimo decimo di secondo realizzata da Arike Ogunbowale, che aveva deciso nello stesso modo anche la semifinale e ora è una celebrità.
Ma il fenomeno non si limita ai vincitori. Su quattro squadre ammesse alle Final Four, le finali Ncaa, il campionato universitario maschile, due erano cattoliche: oltre alla trionfatrice Villanova, anche la “cenerentola” Loyola, fondata a Chicago dai gesuiti, come si capisce dal nome, avanzata vincendo di uno o due punti contro avversarie sulla carta più forti (nel ‘63 vinse l’unico titolo, battendo Cincinnati in finale).
L’elenco potrebbe continuare: erano cattoliche 8 delle 64 squadre qualificate al torneo 2018; cattoliche tre delle quattro alle Final Four del 1985 (Villanova, Georgetown, St.
John’s); è cattolica Gonzaga, detentrice del record di 20 qualificazioni consecutive al torneo di fine stagione, incluso quello dello scorso anno in cui arrivò in finale; cattolica Marquette, università di Milwaukee, che con un leggendario allenatore (cattolico) irlandese in panchina, Al McGuire, dominò il basket dei college anni ’60-’70 e vinse nel 1977; cattolica l’università di San Francisco, in cui sbocciò Bill Russell, uno dei più grandi talenti nella storia del basket americano.
Abbastanza per indurre il New York Times a porre il quesito in prima pagina: perché i college cattolici eccellono nel basket?
Le ragioni sono varie. Un po’ perché lo sport è una formidabile forma di pubblicità per le università statunitensi: e per quelle di dimensioni contenute, come sono le cattoliche, con relativamente pochi studenti e scarsi mezzi, costa di meno puntare sulla pallacanestro, dove servono 10 giocatori, che sul football americano, dove ce ne vogliono 80. Un po’ perché, animate da un cristiano senso di carità sociale, sono sempre andate a reclutare giovani fra le minoranze etniche dei quartieri poveri, non badando al colore della pelle e talvolta neppure alla religione: Marquette fu la prima a violare la regola non scritta di schierare più neri che bianchi in quintetto base, con evidenti benefici. E poi anche grazie ai loro valori tradizionali: squadre che accolgono i giocatori come se fossero una famiglia. Il cui “capo”, per esempio Rollie Massimino, coach del sorprendente titolo 1985 di Villanova, uno dei più grandi exploit sportivi di tutti i tempi, prima di ogni gara li portava rigorosamente a messa e a mangiare gli spaghetti alle vongole a casa da sua moglie.
Non a caso c’era un italoamericano, in campo però, anche nella Villanova che ha prevalso nel 2016, Ryan Arcidiacono, e qualche giorno fa, Donte DiVincenzo: 21 anni, mai entrato fra i primi cinque, nel primo tempo ha fatto schifo ma nella ripresa ha combinato sfracelli (“Donte’s inferno”, riassume un giornale Usa).
Morale: se si ha fede, è possibile credere ai miracoli. «A pregare per la vittoria di tutte queste squadre», scherza un gesuita americano, «c’è Sant’Ignazio di Loyola in persona». E forse non solo lui: non per nulla le finali, quest’anno, si sono giocate nel week-end della Santa Pasqua.