la Repubblica, 4 aprile 2018
Il confine dello 0,9%
Durante l’intera campagna elettorale e in maniera ancor più irresponsabile in questo confuso confronto post-voto, è stato agitato dalla Lega e dal M5S un vero e proprio falso mito: quello del 3 per cento. Ossia la regola fissata dai trattati europei che prevedevano il rispetto del rapporto tra deficit e Pil, appunto, al 3 per cento. Il leader grillino Di Maio a più riprese ha cercato di rassicurare mercati e partner europei confermando l’intenzione di non superare quella soglia – lo ha fatto in occasione della sua visita agli investitori della City di Londra – o di trovare una fessura in quel tetto in modo concordato. Salvini, il capo della Lega, non si è fatto nemmeno quello scrupolo: «Se per creare lavoro – ha annunciato la scorsa settimana – dovremo sfondare il 3 per cento, lo sfonderemo e basta».
Si tratta però di impegni e promesse prive di un elemento basilare: il principio di realtà. L’Italia non è più alle prese con il parametro del 3 per cento. Quel dato per noi non vale più. Anche trascurando quel che avverrà quest’anno e considerato che un eventuale nuovo governo gestirà i conti pubblici solo nel secondo semestre, il problema diventerà però evidente e concreto nel 2019. L’Italia, infatti, il prossimo anno è impegnata a raggiungere un risultato affatto diverso: il nostro obiettivo è lo 0,9 per cento nel rapporto deficit/Pil e nel 2020 addirittura lo 0,2. Altro che 3 per cento. Come stabilisce il Fiscal compact, i Paesi dell’Ue devono conseguire il pareggio di bilancio e l’Italia ha concordato con la Commissione di fissare quel traguardo nel 2020 con quelle tappe intermedie. È quindi da scriteriati pensare ancora di avere come orizzonte la vecchia soglia del 3 per cento e non avere problemi.
Negli ultimi anni quasi tutti i governi hanno strappato qualche decimale di flessibilità, ma mai di più. I programmi illustrati da M5S e Carroccio sono invece del tutto incompatibili con i paletti fissati dall’Ue. Sommare Flat tax, reddito di cittadinanza e abolizione della legge Fornero sulle pensioni equivale a far esplodere le casse dello Stato. Basti pensare che le previsioni più ottimistiche sostengono che la revisione della riforma previdenziale costerebbe solo il primo anno almeno 5 miliardi. Un importo che farebbe crescere la spesa dello 0,5 per cento.
Le idee esposte dalla possibile maggioranza giallo-verde sono dunque complessivamente e singolarmente inconciliabili con i trattati dell’Ue. Ovviamente, come ha fatto di recente il Blog delle Stelle – il sito dei pentastellati – si può coltivare il proposito di “schiacciare il Fiscal compact”.
Ma bisogna anche essere consapevoli delle conseguenze. L’asse grillino-leghista può magari inseguire il sogno di un’improvvisa e imprevista crescita esponenziale del Pil in grado di compensare l’aumento della spesa. Oppure immaginare una riduzione straordinaria del debito che tranquillizzi i mercati sulla sostenibilità della montagna di titoli che ogni anno lo Stato deve emettere. Ma nessuno che abbia il senso delle istituzioni e della credibilità del Paese può muoversi nella convinzione che non ci saranno reazioni.
La Commissione e i partner europei, ad esempio, non potranno accettare che l’unico governo dell’Unione di chiaro stampo populista possa violare le regole comunitarie senza alcuna sanzione. Il precedente di Brexit sta spingendo i vertici dell’Ue a non transigere più. Tutte le richieste che fanno riferimento a una politica sedicente “sviluppista”, ma demagogicamente e sostanzialmente anti- europea, verranno contrastate. Il rischio che il virus populista possa svilupparsi e propagarsi nel resto del continente sta diventando una sorta di confine invalicabile. Che Bruxelles e le capitali più importanti dell’Ue sicuramente non intendono valicare. Prima di formare il nuovo governo e annunciare svolte miracolose, sarebbe bene che tutti iniziassero a fare i conti con la realtà. A meno che non si voglia trasformare l’Italia in una nuova Grecia.